Fiabe Classiche - Giuseppe Pitrè: Le Mie Tre Belle Corone (Li tri belli curuni mei!)

(antica fiaba palermitana. Testo esaminato, annotato, e tradotto da me. Distribuito con licenza CC 3.0 Italia. Per favore, vedasi note a pié di pagina.)

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Artwork by Giovanna Nappo. Qui esposta su amichevole concessione dell'autrice. ©Giovanna Nappo Illustratrice. All rights reserved.

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«Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani», 1870-1913. Libro I - fiaba XI.

libro animato

C'era una volta una lavandaia, che aveva una figlia. Un giorno questa lavandaia andò a consegnare la biancheria, poi tornò a casa e le venne freddo; prima di coricarsi prese una grossa pagnotta, una bottiglia d'olio, li diede alla figlia e le disse: «Figlia mia, io me ne vado all'ospedale. Qua c'è il pane e l'olio per mangiare.» La chiuse dentro e s'infilò le chiavi in tasca. All'ospedale fu assalita da forti febbri; allora si confessò, consegnò le chiavi al confessore e gli disse: «Padre, ho una figlia, e muoio disperata per la paura che possa rimanere in mezzo a una strada.» «Figlia» rispose il confessore, «non dubitare, che a tua figlia ci penserò io: me la porterò a casa mia e starà con mia madre e mia sorella.» La lavandaia morì, ma a tutto pensò il prete, tranne che ad aprire la porta di casa alla ragazza. Venne il sabato; la madre cambiò le tasche al prete per lavargliele, e vide la chiave. «Figlio mio» disse», «e questa chiave?» «Oh! Come ho potuto dimenticarmene!» disse il prete. Prese le chiavi e corse ad aprire alla ragazza; come infilò la chiave nel buco della serratura, la ragazza esclamò: «Mamma!» ma vide il prete; «Zitta, figlia mia» disse il prete, «che tua madre è a casa mia.» E se la portò a casa. Come arrivò a casa del prete, chiamò: «Mamma, mamma!» ma la madre non compariva; all'ultimo le dissero che sua madre era in Paradiso. La povera fanciulla non poteva darsi pace e voleva sua madre. Fece una giravolta e corse per la campagna; Cammina di qua, cammina di là, vide un palazzo tutto cupo, a cominciare dal portone, fino ai balconi. Entrò, e vide delle stanze enormi; entrò in cucina e vide tanto ben di Dio. Andò nell'altra stanza e vide che era tutto a gambe all'aria: prese una scopa e si mise a ripulire l'entrata. Dopo la pulizia delle camere, pulì i lampadari, sbatté i materassi, cambiò la biancheria, rifece i letti e fece risplendere quel palazzo come l'oro. Poi, rientrò in cucina, prese una gallina e si mise a fare del brodo; illuminò le stanze e infine si nascose. A mezzanotte in punto udì una voce esclamare: «Oh, le mie tre belle corone! Oh, le mie tre belle corone!» e la voce s'avvicinava al palazzo. Entrò una signora e disse: «Oh, signore, a chi devo tanta grazia? Vieni qua, figlio mio, vieni qui figlia mia! Se sei uomo, ti prendo per figlio, se sei donna il Signore di benedirà.» E chiamava. Sentendo dir così, la fanciulla uscì e le si gettò ai piedi, e come la vide, la signora le disse: Le mie tre belle corone!Oh, figlia mia, il Signore ti benedirà per il bene che mi hai fatto! Io esco la mattina cercando i miei tre bei figlioli. Tu, qua, figlia mia, sarai padrona: le chiavi sono nel buco della serratura; tu fa' pure come se fossi a casa tua.»

Un giorno che stava da sola, si mise a girare per il palazzo; girando, girando, vide una porticina; l'aprì, e vide tre bei giovanotti: gli occhi erano aperti ma non proferivano parola. S'apprestò a richiudere la porta e disse: «Le mie tre belle corone! Ha ragione la signora! Questi qui sono i suoi figli.» La sera rientrò la signora sempre gridando: «Le mie tre belle corone!» E quando arrivò al palazzo ripeté: «Figlia mia, Dio ti benedirà per il bene che mi fai.»

Un giorno che s'annoiava, la fanciulla s'affacciò al balcone, e guardò in giù verso il giardino; ad un tratto, vide una lucertola con tre lucertoline. Arrivò un'altra lucertola e ammazzò quei piccoli. Tornò la lucertola madre e vide i figli morti: allora, cominciò a contorcersi e a sbattersi di quà e di là. All'ultimo prese una certa erba e la strofinò alla prima lucertolina, e quella resuscitò; fece lo stesso con gli altri due e anch'essi resuscitarono.

La ragazza, che era scaltra, vedendo tutto ciò, prese una pietra e la buttò sopra l'erba miracolosa. Scese con un canestro in giardino e colse un po' di quell'erba; Salita di sopra, aprì la porticina, e si mise a strofinare il primo dei tre giovanotti, e, strofina, strofina, quello riprese vita, e subito disse: »Sorellina mia! Mi hai ridato la vita!» Ella corse in cucina, ammazzò un galletto, fece un po' di brodo, e lo diede al giovane resuscitato; gli sistemò un letto e lo fece coricare. Poi tornò dagli altri due, e resuscitò anche loro; anche a loro diede un po' di brodo e poi li mise a letto. Come i ragazzi si ripresero, cominciarono a domandarle dov'era la signora Imperatrice. Disse allora la ragazza: «Ah, dunque la signora è imperatrice!» Si voltò verso i ragazzi e disse: «Voialtri non muovetevi, che alla signora ve la faccio vedere io.» Quando la signora tornò disse di nuovo: «Oh le mie tre belle corone!» La fanciulla si mise a chiacchierare, poi le domandò:

«Come mai uscite, Vostra Eccellenza?»
«Ah, figlia mia, io esco per cercare le mie tre belle corone.»
«E potreste spiegarmi chi sono queste tre belle corone, Eccellenza?»
«Senti, quando c'era mio marito, io avevo tre figli maschi, ma poi 'sti tre figli mi son spariti, e io li vado cercando.»
«Ora volete farmi un piacere, Eccellenza? Non dovrete uscire più, che i Vostri figli ve li faccio ritrovare io.»
«Figlia, dici davvero?»
«Vi dò la mia parola che i Vostri figli ve li farò ritrovare io.»
«Quanto tempo ti serve, figlia mia?»
«Otto giorni.»
«Otto giorni, da domani in poi non uscirò più.»

E La ragazza che faceva? Prima dava da mangiare ai figli di nascosto dalla madre, poi serviva l'imperatrice, la pettinava, la vestiva con begli abiti, e le diceva che doveva farsi bella per incontrare i suoi figli, i quali la guardavano dalle fessure della porta, senza farsi vedere. Passati quattro giorni, la ragazza disse all'imperatrice: «Ora, Vostra Eccellenza, potrete fare i Vostri inviti, perché domenica ritroverete i Vostri figli." L'imperatrice pianse dall'emozione e disse teneramente: «Ah, figlia mia, come ti pagherò il bene che mi hai fatto?»

Da grande imperatrice che era, mandò gli inviti a tutta la nobiltà, e durante tutta la giornata andava baciando la ragazza. Al settimo giorno, felicissima all'idea di rivedere finalmente i suoi figli, disse alla fanciulla:

«Senti, figlia mia, se veramente mi farai ritrovare i miei figli, il più grande te lo darò per marito.»

Nei racconti il tempo passa in fretta, e così venne presto l'ottavo giorno; giunsero gli invitati, tutti i cavalieri, i soldati, e tutti i sudditi dell'imperatrice. Ma ella non aveva ancora rivisto i figli. A un certo punto, si aprì la parte inferiore dell'uscio; l'imperatrice fece indossare alla fanciulla un bellissimo abito, la prese sotto braccio, e la presentò a tutti gli invitati, dicendo a tutti che le avrebbe fatto ritrovare i suoi figli. Mentre aspettava, si aprì la porta di una camera, e apparevero i tre giovanotti.

Immaginatevi la contentezza! La madre corse ad abbracciarli piangendo di gioia, e la banda cominciò a suonare a festa. Subito mandarono a chiamare il cappellano per celebrare il matrimonio tra il figlio maggiore e la ragazza. Il matrimonio fu celebrato, e tra gli invitati c'erano i migliori imperatori (tra cui lo sposo, erede al trono del defuno padre.)

E furono felici e contenti
mentre noi siamo qui a pulirci i denti.

Pitrè annota: "Raccontato da Agatuzza Messia"

(Traduzione dall'antico siciliano di Valentina Vetere.)

Annotazione

Questa fiaba è stata esaminata e tradotta da me dal dialetto siciliano. Chiunque desideri questo testo per i propri siti, può prelevarlo liberamente, seguendo le medesime condizioni regolate dalla licenza Creative Commons 3.0 indicata in questa pagina, in segno di rispetto per il mio lavoro.

Si ricorda, inoltre, di non fare hot link sulle immagini. Grazie per l'attenzione. Valentina.

Licenza Creative Commons

Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia

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(Documento creato in data 14 settembre 2013.)

Questo testo dialettale antico da me tradotto in italiano moderno è stato possibile grazie all'aiuto di alcune persone, tra le quali mio marito, che mi ha, in primis, sostenuta e spronata a cimentarmi in una lingua di non semplicissima comprensione. Durante la lettura del testo originale e la stesura della versione italiana, mi sono documentata sul Web, e, all'occorrenza, ho consultato il "Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano", a cura di Vincenzo Mortillaro, edizione 1853. Altri siti consultati: Wikipedia ed Enciclopedia Treccani On Line. Il testo in lingua originale proviene dalla raccolta completa in 4 volumi edita dal sito Liber Liber e liberamente scaricabile e riproducibile.

Nell'operare la non facile traduzione, ho cercato di attenermi strettamente a quel tipico e vivace linguaggio semplice ed essenziale che caratterizza la narrazione di Agatuzza Messia, palermitana, annotata e trascritta intorno al 1870 dal professor Pitrè. Se nel corso del testo fossero, per caso, presenti, errori o imprecisioni, me ne scuso vivamente, ma ho cercato, nella mia non sicilianità, di fare comunque del mio meglio e di tradurre nel modo più corretto e veritiero questa splendida fiaba di casa nostra, patrimonio del nostro magico scrigno di fiabe popolari italiane che, a mio avviso, ogni bambino dovrebbe conoscere.

Per chi volesse cimentarsi con la lettura del testo originale in dialetto siciliano, veda questa pagina.