Fiabe Classiche - J.Jacobs: Tom Tit Tot

Tom Tit Tot

(Immagine illustrativa: By John Dickson Batten - P.D.)

«English Fairy Tales, 1980»

libro animato

C'era una volta una donna che mise in forno cinque pasticci. Quando li tirò fuori erano un tantino troppo cotti, con la crosta dura da mordere. Così la donna disse a sua figlia: "Figlia mia, metti quei pasticci sulla madia e lasciali un pò lì a rinvenire". Si sa che vuol dire, vuol dire che la crosta si ammorbidisce. Ma la ragazza pensò fra sé: ' Beh, se tanto poi rinvengono, posso anche mangiarmeli '. E ci dette dentro a mangiarseli tutti, dal primo all'ultimo. Arrivata ora di cena, la donna disse: "Và a prendere uno dei pasticci, che ormai saranno ben rinvenuti." La ragazza andò a vedere, ma c'erano rimasti solo i piatti. Così torna dalla madre e dice:"No che non sono rinvenuti." "Nemmeno uno?" "Nemmeno uno." "Beh, rinvenuti o non rinvenuti," disse la donna "me ne mangerò uno per cena." "Ma non puoi, finché non rinvengono." "Certo che posso. Và un po' a prendere quello che ti sembra meglio." "Meglio o peggio, li ho mangiati tutti io, e tu non puoi far cena finché non rinverranno." Beh, la donna ci restò proprio secca, prese su l'arcolaio e si sedette a filare sulla soglia, e mentre filava cantava così:

"Mia figlia oggi ha mangiato per cinque.
Mia figlia oggi ha mangiato per cinque."

Il re, che passava in quella strada, la sentì cantare, ma non capi bene le parole, perciò si fermò e chiese: "Cos'è che cantava, buona donna?" La donna si vergognava troppo a fargli sapere cos'aveva combinato sua figlia, così invece di quella canzone cantò questa:

"Mia figlia oggi ha filato per cinque,
mia figlia oggi ha filato per cinque."

"Numi del cielo!"disse il re, "non ho mai sentito di qualcuna che ne fosse capace." E aggiunse: "Stia a sentire, io cerco moglie e sposerò sua figlia. Ma ascolti bene: per undici mesi all'anno potrà mangiare tutta roba buona, e avere tutti i vestiti che vuole e amici e feste finché le pare, ma durante l'ultimo mese dell'anno dovrà filare cinque matasse al giorno, e se non ce la fa la ucciderò." "Benissimo," disse la donna, perché pensò che quello si era un buon partito. E in quanto a quelle cinque matasse, quando si fosse arrivati al punto avrebbero trovato il modo di cavarsela, e novantanove su cento il re se ne sarebbe scordato. E cosi il matrimonio fu celebrato. E per undici mesi la ragazza mangiò solo roba buona, ed ebbe tutti i vestiti che voleva e amici e feste finché le pareva. Ma col passare del tempo cominciò a pensare alle famose matasse, e a chiedersi se il marito se le ricordasse ancora. Lui però non diceva una parola, e lei si convinse che se ne era proprio dimenticato. E invece, l'ultimo giorno dell'undicesimo mese il marito la accompagnò in una stanza che lei non aveva mai visto prima. Dentro c'erano solo un arcolaio e uno sgabello. "Allora, mia cara," disse il re, "domani ti rinchiuderò qui con qualcosa da mangiare e un bel pò di lino, e se per domani sera non avrai filato cinque matasse, ti taglierò la testa." Dopodiché se ne andò per i fatti suoi. Non vi dico lei com'era spaventata. Era sempre stata talmente sventata che non sapeva neanche da dove si comincia a filare, e come se la sarebbe cavata l'indomani, se nessuno fosse venuto in suo aiuto? Si ri fugiò in cucina, si sedette in un canto e scoppiò a piangere come una fontana.

Ed ecco che all'improvviso senti qualcuno che bussava alla porta, ma molto in basso. Si alzò e andò ad aprire, e cosa non vide! C'era sulla soglia un affarino nero con una lunga coda che la fissò con grande curiosità e le chiese: "Perché piangi?" "Che ti importa?" "Non ti preoccupare," rispose la strana creatura, "e dimmi perché piangi." "Per quel che mi serve dirtelo." "Questo non puoi saperlo" rispose lui, e fece roteare la coda. "Beh, in ogni caso male non mi farà di certo". E gli raccontò tutta la storia dei pasticci e delle matasse. "Senti qua cosa farò," disse l'affarino nero, "tutte le mattine verrò alla tua finestra, tu mi darai il lino e io te lo riporto alla sera filato." "E in cambio di cosa?" chiese lei.

Quel buffo essere la guardò di sbieco e rispose: "Tutte le sere potrai fare tre tentativi di indovinare il mio nome, e se per la fine del mese non ci sarai riuscita, sarai mia." Lei pensò che di sicuro in un mese sarebbe riuscita a indovinare il nome. "Benissimo," rispose, "ci sto." "Molto bene" disse lui, e come fece roteare la coda! E insomma il mattino dopo il marito la accompagnò nella stanza dell'arcolaio, dov'erano già pronti cibo e lino. "Ecco il lino,"disse il re "e se per stanotte non sarà filato tutto, vedi come ti parte la testa". E se ne andò chiudendo la porta a chiave. Se n'era appena andato che la ragazza sentì bussare alla finestra.

alla finestra

Corse ad aprire e sicuro come l'oro ecco li la bizzarra creaturina nera, seduta sul davanzale. "Dov'è il lino?" chiese. "Ecco qua" rispose lei, e glielo diede.

Venne la sera, e di nuovo bussarono alla finestra. Lei corse ad aprire,e sicuro come l'oro c'era l'affarino bizzarro con cinque matasse di lino fra le braccia.

"Ecco qua" disse, e lo porse alla ragazza. "E adesso, dimmi come mi chiamo." "Forse Bill?" "Proprio no" rispose lui, e roteò la coda. "Allora sarà Ned?" "Proprio no," disse lui. E roteò la coda. "Forse Mark?" "Proprio no" rispose lui. E roteò la coda più in fretta, e poi guizzò via. E insomma, quando arrivò il marito, le cinque matasse erano bell'e pronte. "Vedo che per stasera non dovrò ucciderti, amor mio. Domattina ti farò avere dell'altro cibo e dell'altro lino." Detto questo, se ne andò. E cosi tutti i giorni arrivava il cibo e arrivava il lino, e tutti i giorni il mostricino nero arrivava, mattina e sera. E per tutto il giorno la ragazza se ne stava seduta a studiare dei nomi da dirgli la sera. Ma non colpì mai nel segno. E man mano che si avvicinava la fine del mese, il mostricino assumeva un'aria sempre più maliziosa, e ruotava la coda più in fretta ogni volta che lei sbagliava. E alla fine arrivò il penultimo giorno.

Il mostricino arrivò anche quella sera con le sue cinque matasse, e subito disse: "Allora, non hai ancora indovinato il mio nome?" "È forse Nicodemo?" "Proprio no." "È forse Sammle?" "Proprio no." "Oh, beh... sarà mica Matusalemme?" "E no, nemmeno quello." Poi la guardò con occhi come carboni ardenti e disse: "Donna, ancora domani sera, e sarai mia!" e guizzò via.

Lei stava per svenire dall'orrore, ma proprio in quel momento sentì il re che arrivava. Il re entrò, e quando vide le cinque matasse disse cosi: "Ebbene, amor mio, non vedo proprio perché non dovresti avere le tue matasse pronte anche domani sera, e poiché conto di non doverti uccidere, stasera posso anche cenare qui con te". E la cena fu servita, un altro sgabello fu portato, e i due si sedettero a tavola. Ma il marito aveva mangiato appena un paio di bocconi che posò la forchetta e scoppiò a ridere. "Che c'è?" chiese lei. "Ah, sapessi.." rispose lui, "oggi ero fuori a caccia e mi sono ritrovato in un punto del bosco che non conoscevo. C'era una vecchia cava calcarea, e passando li accanto ho sentito una specie di cantilena o qualcosa del genere. Allora sono sceso da cavallo, mi sono avvicinato pian piano alla cava, e ho guardato dentro. Beh, cosa non c'era li se non il più ridicolo affarino tutto nero che tu ti possa immaginare. E non hai idea di cosa stava facendo, stava filando a tutto spiano con un arcolaio, e intanto roteava la coda e cantava:

'Nimmi nimmi not
io mi chiamo Tom Tit Tot.'

A sentir questo poco mancò che la ragazza scappasse fuori dai vestiti per la gioia, ma si contenne e non disse neanche una parola.

Il giorno dopo il mostricino arrivò a prendere il lino con un'aria più maliziosa che mai. E a sera la fanciulla sentì nuovamente bussare ai vetri della finestra. Andò ad aprire, e lui era lì sul davanzale. E se la rideva da un orecchio all'altro, e roteava quella sua coda come un mulinello. "Allora, come mi chiamo?" chiese, porgendole le matasse. "Forse Salomone?" chiese lei, fingendosi spaventata. "Proprio no" rispose lui, avanzando nella stanza. "E allora magari Zebedeo?" "Oh no, proprio no" disse il mostricino, e rideva, e faceva roteare la coda così in fretta da renderla quasi invisibile. "Pensaci bene, donna," disse, "ancora un tentativo e poi sei mia". E allungò verso di lei due manacce nere. E lei fece un paio di passi indietro, lo guardò, scoppiò a ridere e indicandolo col dito cantò:

"Nimmi nimmi not
tu ti chiami Tom Tit Tot."

A queste parole, l'affarino mandò uno strillo raccapricciante e guizzò via nel buio, e non si fece mai più vedere.

[fino a quando....]

La zingara (seguito)

Per tutto l'anno seguente la ragazza si godette la più bella vita e la migliore compagnia, finché si avvicinò la fine dell'undicesimo mese. E quando fu il momento il marito le disse così: "Allora, amor mio, oggi è l'ultimo giorno del mese, e da domani comincerai a filare le tue cinque matasse al giorno." Lei non ci aveva neanche più pensato, convinta che lui ormai si fosse dimenticato tutta la faccenda, e adesso non sapeva proprio come fare. Su Tom Tit Tot non ci poteva più contare, e in quanto a lei, non sapeva filare neppure un batuffolo, perciò questa volta si che le sarebbe partita la testa! E cosi, povera ranocchietta, si rifugiò di nuovo su uno sgabello in cucina e pianse come una vite tagliata.

All'improvviso senti qualcuno che bussava alla porta, si alzò, andò ad aprire, e vide sulla soglia una zingara scura come un chicco di caffè. "E allora, cosa succede qui?" chiese la donna, "come mai piangi cosi?" "Và via, donna dalla pelle dorata, qua non c'è nulla da fare per te." "Dimmi cosa ti preoccupa, e forse ci sarà qualcosa che posso fare." Aveva un'aria talmente comprensiva che la ragazza si confidò con lei. "Tutto qui?" disse la zingara,"ho aiutato molta gente a tirarsi fuori da guai più grossi di questo, e aiuterò anche te." "Si, ma cosa vorrai poi in cambio?" chiese la ragazza, pensando a quando era stata a un pelo dal finire fra le grinfie del mostricino nero. "Non ti chiederò altro che il tuo più bel vestito," rispose la zingara. "Te lo darò ben volentieri" disse la ragazza, e corse ad aprire l'armadio dove teneva il suo vestito più bello con tutti gli accessori, e lo diede alla donna, compresa una spilla d'oro luccicante. ' Tanto,' pensò fra sé, ' se è un'imbrogliona e non mi aiuterà, mi taglieranno la testa e non mi importerà più nulla di avere ancora il mio bel vestito".

Quando la donna vide il vestito, lo trovò bellissimo e disse: "Adesso invita tutti quelli che conosci a una grande festa, e verrò anch'io. E la ragazza andò dal marito e gli chiese: "Mio caro, dato che è l'ultima sera prima di mettermi al lavoro, mi piacerebbe dare una festa." "Ma certo, amor mio."

Così amici e conoscenti furono invitati, e tutti vennero coi loro migliori abiti, di seta e di raso e di ogni sorta di stoffe preziose e ricamate. Prima ci fu un banchetto ricco di squisite leccornie, e tutti se lo godettero straordinariamente. Ma la zingara non si fece vedere, e la ragazza stava col cuore in gola. Poi danzarono, ma dopo un po' un Lord cominciò a sentirsi stanco, e disse che siccome era quasi mezzanotte lui magari se ne sarebbe andato a casa. "No, no, resti ancora un pò," disse la ragazza, "giochiamo a mosca cieca". E il gioco cominciò. Proprio in quel momento si apri la porta ed entrò la zingara. Si era lavata e pettinata, e si era legata un bel fazzoletto vivace attorno alla testa, e col vestito nuovo sembrava proprio una vera regina. "Numi del cielo, e chi è quella?" chiese il re. "Oh... è una mia amica," rispose la regina. E stette a vedere cos'avrebbe fatto la zingara. "State giocando a mosca cieca?" chiese la donna, "Bene, gioco anch'io. E si unì agli altri. Ma in tasca aveva una pallottola di grasso per ungere le ruote dei carretti, e mentre correva sfregò forte le dita sul grasso e lo spiaccicò sui vestiti della gente che toccava. Non passò molto che qualcuno gridò: "Ehi, c'è della robaccia schifosa sul mio vestito." "Ehi, anche sul mio" disse un altro, "devi avercela messa tu." "Neanche per sogno. Sei tu che l'hai appiccicata a me". E in un lampo tutti strillavano e litigavano, ognuno convinto che fosse stato un altro a imbrattargli il vestito.

Si avvicinò il re a vedere cosa stesse succedendo. Le dame piangevano, i cavalieri urlavano, e tutti quei bei vestiti erano rovinati. "Ehi, cos'è questa roba?" disse il re, che aveva anche lui una grossa macchia sulla manica. La annusò, arricciò il naso e disse: "È grasso per ungere le ruote." "No," disse la zingara, "è roba che viene dalle mie mani. È unto di fuso." "Cosa sarebbe l'unto di fuso?" chiese il re. "Beh," rispose lei, "ai miei tempi ero una filatrice straordinaria, e filavo, filavo, filavo, fino a cinque matasse al giorno. E siccome filavo tanto, il grasso del fuso mi è penetrato nelle dita, e adesso posso lavarle quanto voglio, sporco tutto quello che tocco. E se tua moglie fila quanto me, anche lei si riempirà di unto di fuso." Allora il re si guardò la manica, la sfregò e la annusò e poi disse: "Senti qua, tesoro, e ascolta bene. Se ti vedo ancora con un arcolaio in mano, ti taglio la testa." E cosi la ragazza non dovette mai più filare. E questo è tutto.