Fiabe Classiche - Grimm: I due fratelli (parte I)

il drago sconfitto

"Kinder und Hausmärchen" (n.60)

gif animata

C'erano una volta due fratelli, uno ricco e uno povero. Il ricco era orefice e di cuore malvagio; il povero campava facendo scope ed era buono e onesto: aveva due figli gemelli, che si assomigliavano come due gocce d’acqua. I due ragazzi frequentavano la casa del ricco, e ogni tanto toccava loro qualche avanzo.

Ora avvenne che il pover’uomo, andando nel bosco in cerca di saggina, vedesse un uccello tutto d’oro, bello come non ne aveva mai visti. Prese un sassolino, glielo scagliò contro e riuscì a colpirlo; ma cadde soltanto una penna e l’uccello volò via. L’uomo prese la penna e la portò al fratello che la guardò e disse: “E’ oro puro”, e gliela pagò lautamente.

Il giorno dopo l’uomo salì su una betulla per tagliar qualche ramo; ed ecco volar fuori quel medesimo uccello; cercando bene, egli trovò un nido con dentro un uovo d’oro. Prese l’uovo e lo portò al fratello che disse: “E’ oro puro” e lo pagò del dovuto prezzo. Infine l’orefice disse: “Vorrei proprio avere anche l’uccello”. Il povero andò nel bosco per la terza volta e di nuovo vide l’uccello posato sull’albero; prese una pietra, l’abbatté e lo portò al fratello, che gli diede un bel mucchio di monete d’oro. “Ora posso tirare avanti”, pensò, e tornò a casa contento. L’orefice era furbo e astuto e sapeva bene che razza d’uccello fosse. Chiamò la moglie e disse: “Arrostiscimi l’uccello, e bada che non ne manchi: ho voglia di mangiarmelo tutto io”. L’uccello non era dei soliti: era di una specie così singolare, che, a mangiare il cuore e il fegato, ogni mattina si trovava una moneta d’oro sotto il guanciale. La donna preparò l’uccello, l’infilò su uno spiedo e lo fece arrostire. E, mentre l’uccello era al fuoco, ella dovette uscir dalla cucina per altre faccende; ed ecco entrar di corsa i due bambini del povero fabbricante di scope che si misero davanti allo spiedo e lo girarono un paio di volte. E, poiché proprio in quel momento caddero nella padella due briciole, uno disse: “Quei due bocconcini possiamo ben mangiarli! Io ho tanta fame!” “Già, nessuno ci baderà”. E li mangiarono. Ma sopravvenne la donna, vide che mangiavano qualcosa e disse: “Cosa avete mangiato?” “Due briciole cadute dall’uccello” risposero. “Erano il cuore e il fegato” disse la donna, tutta spaventata, e perché il marito non se ne accorgesse, e non andasse in collera, s’affrettò a uccidere un galletto, gli tolse il cuore e il fegato e li mise nell’uccello d’oro. Quando fu ben cotto, lo servì al marito, che se lo mangiò tutto senza lasciar nulla. Ma il mattino dopo, quando tastò sotto il guanciale, pensando di tirar fuori la moneta d’oro, non trovò un bel niente. I due bambini non sapevano che fortuna fosse toccata loro: il mattino dopo, quando si alzarono, qualcosa cadde in terra tintinnando; lo raccolsero, ed ecco, erano due monete d’oro. Le portarono al padre, che disse stupito: “Come mai?” Ma quando il mattino dopo ne trovarono altre due, e così ogni giorno, egli andò dal fratello e gli raccontò l’accaduto.

L’orefice capì subito come era andata e che i due bambini avevano mangiato il cuore e il fegato dell’uccello d’oro; e per vendicarsi, invidioso e crudele com’era, disse al padre: “I tuoi bambini se l’intendono col diavolo; non prendere l’oro, non lasciarli stare in casa tua, perché il diavolo li ha in suo potere e può mandare in perdizione anche te.” Il padre temeva il Maligno, e, per quanto gli pesasse, condusse i due gemelli nel bosco e, col cuore grosso, li abbandonò.

I due bambini errarono per il bosco, cercando il sentiero verso casa, ma non lo trovarono e si persero sempre di più. Alla fine incontrarono un cacciatore, che domandò: “Chi siete, bambini?” “Siamo i figli del povero fabbricante di scope”, risposero, e gli raccontarono che il padre non aveva più voluto tenerli in casa, perché tutte le mattine c’era una moneta d’oro sotto il loro cuscino. “Bè”, disse il cacciatore “non c’è niente di male in ciò, purché siate onesti e non diventiate dei fannulloni.” Siccome i bambini gli piacevano ed egli non ne aveva, il buon uomo se li portò a casa dicendo: “Vi farò da padre e vi alleverò”. Impararono così da lui l’arte della caccia e la moneta d’oro, che trovavano al risveglio, fu messa in serbo, caso mai ne avessero avuto bisogno in futuro.

Quando furono adulti, il padre adottivo li condusse un giorno nel bosco e disse loro: “Oggi dovete fare il tiro di prova, perché possa promuovervi cacciatori”. Si appostarono con lui e attesero un pezzo, ma selvaggina non ne veniva. Il cacciatore alzò gli occhi e vide un gruppo di oche selvatiche che volavano disposte a triangolo; allora disse a uno dei gemelli: “Abbattine una per angolo”.  Quegli lo fece, e fu il suo tiro di prova. Poco dopo, ecco un’altra fila di oche selvatiche, che figurava il numero due: il cacciatore ordinò anche all’altro gemello di abbatterne una per angolo e anche questi superò la prova.

Allora il padre adottivo disse: “Ormai siete cacciatori provetti”. Poi i due fratelli andarono insieme nel bosco e si misero d’accordo; la sera, a cena, dissero al padre adottivo: “Non tocchiamo cibo, non prendiamo neanche un boccone, se non acconsentite a una nostra preghiera”. “Che preghiera?” disse egli. “Abbiamo finito il tirocinio” risposero “ma bisogna anche provarsi nel mondo, e vorremmo che ci lasciaste partire.” Disse il vecchio con gioia: “Parlate da bravi cacciatori; il vostro desiderio è stato anche il mio, andate, avrete fortuna.” E mangiarono e bevvero allegramente insieme.

Nel giorno stabilito, il padre adottivo regalò a ciascuno un bello schioppo e un cane; e dall’oro risparmiato, lasciò che ognuno ne prendesse quanto voleva. Poi li accompagnò per un tratto di strada; accomiatandosi, diede loro un coltello tutto lustro e disse: “Se mai vi dovrete separare, piantate questo coltello in un albero, ad un crocicchio così ognuno di voi, tornando, potrà vedere com’è andata al  fratello: perché da una parte, verso la strada percorsa dall’assente, il coltello arrugginisce se egli muore, ma finché vive, rimane lucido”.I due fratelli proseguirono e, cammina cammina, giunsero in un bosco così grande che un giorno non bastò per attraversarlo. Quindi, vi pernottarono e mangiarono quel che avevano nel carniere. Ma per quanto camminassero, non uscirono dal bosco neppure il giorno dopo. Siccome non avevano da mangiare, l’uno disse: “Bisognerà ammazzare qualcosa, per non patire la fame”. Caricò lo schioppo e si guardò intorno. E quando vide venir di corsa una vecchia lepre, prese la mira; ma la lepre gridò:

O cacciatore, non mi ammazzare
Due dei miei piccoli ti voglio dare.

Saltò subito nella macchia e portò due piccoli; ma i leprottini giocavano così allegramente ed erano così graziosi che i cacciatori non ebbero cuore di ucciderli. Li tennero con sé, e i leprotti li seguirono dappresso. Poco dopo, accanto a loro venne una volpe; volevano spararle, ma la volpe gridò:

O cacciatore, non mi ammazzare
Due dei miei piccoli ti voglio dare.

E portò due volpacchiotti; e anche questi i cacciatori non vollero ucciderli, li diedero per compagni ai leprotti, e proseguirono con tutt’e quattro. Dalla macchia non tardò ad uscire un lupo; i cacciatori presero la mira, ma il lupo gridò:

O cacciatore, non mi ammazzare
Due dei miei piccoli ti voglio dare.

I cacciatori misero i due lupacchiotti con le altre bestie, e tutti li seguirono. Poi venne un orso, che aveva ancora voglia di trotterellare per il mondo, e gridò:

O cacciatore, non mi ammazzare
Due dei miei piccoli ti voglio dare.

E i due orsacchiotti furono messi con gli altri, ed erano già otto. Chi arrivò alla fine? Un leone, scuotendo la criniera. Ma i cacciatori non si lasciarono intimorire e presero la mira, e anche il leone gridò:

O cacciatore, non mi ammazzare
Due dei miei piccoli ti voglio dare.

Portò anch’egli i suoi due piccoli e così i cacciatori avevano due leoni, due orsi, due lupi, due volpi e due lepri che li seguivano, pronti a servirli. Ma intanto la fame non se l’erano tolta, allora dissero alle volpi: “Sentite, furbacchione, procurateci qualcosa da mangiare, voi che siete scaltre e maliziose”. “Non lontano di qui” risposero quelle “c’è un villaggio, dove abbiamo già preso diversi polli: vi mostreremo la strada.” Andarono nel villaggio, si comprarono qualcosa e fecero dar da mangiare anche alle loro bestie; poi proseguirono. Le volpi, molto pratiche del luogo, che era ricco di pollai, mettevano sempre i cacciatori sulla buona strada. Così vagabondarono per un po’, ma in nessun posto poterono prestar servizio insieme. Allora dissero: “Non c’è scampo, dobbiamo separarci”.

Si spartirono le bestie, così che ognuno ebbe un leone, un orso, un lupo, una volpe e una lepre; poi si dissero addio, si promisero amore fraterno fino alla morte e conficcarono in un albero il coltello donato dal padre adottivo; poi l’uno andò verso oriente, l’altro verso occidente.

Il più giovane giunse coi suoi animali in una città, tutta parata a lutto. Entrò in una locanda e chiese al padrone se poteva alloggiare le sue bestie. L’albergatore diede loro una stalla, che aveva un buco nella parete: e la lepre sgusciò fuori e andò a prendersi un cavolfiore; la volpe si prese una gallina e, mangiata che l’ebbe, prese anche il gallo; ma il lupo, l’orso e il leone erano troppo grossi per uscire. Allora l’oste li fece condurre in un gran prato, dove era una mucca, così che mangiarono a sazietà. Soltanto dopo aver provveduto alle sue bestie, il cacciatore domandò all’oste perché la città fosse parata a lutto. Disse l’oste: “Perché domani morirà l’unica figlia del nostro re.” “E’ tanto malata?” domandò il cacciatore. “No” rispose l’oste “è fresca e sana, ma deve morire.” “Come mai?” domandò il cacciatore. “Davanti alla città c’è un monte, su cui dimora un drago, che ogni anno deve avere una vergine, o devasta tutto il paese. Ormai le vergini sono state tutte sacrificate e non resta che la principessa. Perciò non c’è scampo, dev’essergli consegnata proprio domani.” Disse il cacciatore: “Perché non uccidono il drago?” “Ah,” rispose l’oste “già molti cavalieri l’hanno tentato, ma ci hanno rimesso la vita tutti quanti. Il re promette al vincitore del drago di sposare la principessa e di essere erede del regno”. Il cacciatore tacque, ma il mattino dopo prese con sé le sue bestie e salirono sul monte del drago. In cima al monte c’era una chiesetta, e sull’altare tre calici pieni e accanto la scritta: “Chi vuota questi calici diventa l’uomo più forte del mondo e maneggerà la spada che è sepolta davanti alla soglia”. Il cacciatore non bevve, e cercò di estrarre la spada, ma non poté smuoverla. Allora bevve dai calici e li vuotò, e divenne tanto forte da sollevare la spada e maneggiarla con facilità.

Venuta l’ora di consegnare la vergine al drago, il re, il maresciallo e tutti i cortigiani la accompagnarono. Ella vide da lontano il cacciatore sulla cima del monte e pensò che il drago fosse là ad aspettarla; non voleva salire ma alla fine, poiché l’intera città sarebbe stata perduta, dovette fare il gran passo. Il re e i cortigiani tornarono a casa in grande afflizione; invece il maresciallo dovette rimanere a osservare da lontano che il drago portasse via la fanciulla. Quando la principessa arrivò sulla cima del monte, non trovò il drago, ma il giovane cacciatore. Egli la confortò e le promise di salvarla, la condusse nella chiesetta e ve la rinchiuse. Poco dopo, ecco arrivare con grande strepito il drago dalle sette teste. Scorgendo il cacciatore, disse, stupito: “Cosa fai qui sul monte?”. Il cacciatore rispose: “Voglio combattere con te”. Disse il drago: “Più di un cavaliere ha già perso la vita, la spunterò anche con te”, e mandò fuoco dalle sette gole. Il fuoco doveva incendiare l’erba secca, e soffocare il cacciatore nella vampa e nel fumo, ma le bestie accorsero e lo spensero con le zampe. Allora il drago s’avventò contro il cacciatore, ma questi vibrò la spada risonante e gli tagliò tre teste.

Il drago si alzò nell’aria, vomitando fiamme e tentando di scagliarsi sul cacciatore; ma questi tornò a brandir la spada e gli mozzò ancora tre teste. Il mostro ricadde sfinito, eppure volle di nuovo lanciarsi contro il nemico che, con le sue ultime forze, gli mozzò la coda e, ormai incapace di lottare, chiamo le sue bestie a sbranarlo. Finito il combattimento, il cacciatore aprì la chiesa e trovò la principessa che giaceva a terra, era svenuta durante la lotta per lo spavento e l’angoscia. La portò fuori, e quando ella rinvenne e aprì gli occhi, le mostrò il drago fatto a pezzi e le disse che era libera. Ella esclamò, piena di gioia: “Tu sarai il mio diletto sposo, perché mio padre mi ha promessa all’uccisore del drago”. Poi si tolse la collana di corallo e la divise fra gli animali, per ricompensarli; e al leone toccò il fermaglietto d’oro. Ma il fazzoletto con il suo nome lo regalò al cacciatore, che andò a tagliar le lingue delle sette teste del drago, le avvolse e le serbò con cura. Fatto questo, poiché il fuoco e la lotta l’avevano spossato, disse alla fanciulla: “Siamo così stanchi tutti e due! Dormiamo un po’!” Lei acconsentì, si sdraiarono per terra e il cacciatore disse al leone: “Veglia, che nessuno ci sorprenda nel sonno!”, e si addormentarono entrambi. Il leone si sdraiò accanto a loro, ma il combattimento aveva stancato anche lui; chiamò l’orso e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’; se succede qualcosa, svegliami”. L’orso gli si sdraiò accanto, ma era stanco anche lui, chiamò il lupo e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’; se succede qualcosa, svegliami”. Il lupo gli si sdraiò accanto, ma era stanco anche lui, chiamò la volpe e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’, se succede qualcosa, svegliami”. La volpe gli si sdraiò accanto, ma era stanca anche lei, chiamò la lepre e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’, se succede qualcosa, svegliami”. La lepre si sdraiò accanto, ma anche lei era stanca, poverina, e non aveva nessuno da chiamare a far la guardia, e si addormentò. E così, insieme al cacciatore e alla principessa, dormivano tutti quanti gli animali di un sonno profondo.

Il maresciallo, che aveva dovuto guardare da lontano, poiché non vide il drago volar via con la fanciulla, e sul monte era tutto tranquillo, si fece coraggio e salì. E lì vide il drago che giaceva morto e sbranato, e non lontano c’era la principessa con il suo salvatore e con tutte le bestie, tutti immersi nel sonno. Egli, che era cattivo e malvagio, afferrò la spada, tagliò la testa al cacciatore, prese in braccio la fanciulla e la portò giù dal monte. Ella si svegliò e inorridì, ma il maresciallo disse: “Sei nelle mie mani; devi dire che sono stato io a uccidere il drago” “Non posso” rispose “è stato un cacciatore con i suoi animali”. Allora egli sguainò la spada e la minacciò di morte se non obbediva, e così la obbligò alla promessa. Poi la condusse dal re, che andò in visibilio rivedendo la sua cara bambina, che immaginava sbranata dal mostro. Il maresciallo gli disse: “Ho ucciso il drago e ho liberato la fanciulla e tutto il regno; esigo dunque che ella sia mia moglie, secondo la promessa”. Il re chiese alla fanciulla la conferma di ciò che il maresciallo affermava, e la figlia rispose; “Ah, dev’esser vero, ma sia ben fermo che le nozze saranno soltanto fra un anno e un giorno.” Sperava infatti di sapere qualcosa del suo caro cacciatore in quel lasso di tempo. Ma sul monte del drago gli animali dormivano ancora accanto al loro signore morto, quando arrivò un grosso calabrone e si posò sul naso della lepre, ma quella lo scacciò con la zampa e continuò a dormire.

Il calabrone tornò una seconda volta, ma la lepre lo scacciò di nuovo e continuò a dormire, allora tornò una terza volta, e le punse il naso, svegliandola. Appena desta, la lepre svegliò la volpe, la volpe il lupo, il lupo l’orso, e l’orso il leone. E quando il leone si svegliò e vide che la fanciulla era scomparsa e il suo padrone era morto, si mise a ruggire terribilmente e gridò: “Chi ha fatto questo? Orso, perché non mi hai svegliato?” L’orso domandò al lupo: “Perché non mi hai svegliato?” e via via così fino alla povera lepre, che non sapeva cosa rispondere, e tutta la colpa ricadde su di lei. Volevano saltarle tutti addosso, ma ella supplicò: “Non uccidetemi, risusciterò il nostro padrone. Conosco un monte, dove cresce una radice che, a metterla in bocca, guarisce ogni malattia e ogni ferita. Ma il monte è a duecento ore da qui”. Disse il leone: “In ventiquattr’ore devi andare e tornare e portare la radice”. La lepre corse via, e in ventiquattr’ore era di ritorno con la radice. Il leone pose la testa del cacciatore sul tronco e la lepre gli mise in bocca la radice; subito, tutto si ricongiunse, il cuore prese a battere e tornò la vita. Il cacciatore si svegliò e, non vedendo più la fanciulla, pensò sbigottito “se n’è andata mentre dormivo, per liberarsi di me”. Nella fretta, il leone gli aveva riattaccato la testa al contrario, ma egli, assorto nei suoi tristi pensieri, non se ne accorse; soltanto a mezzogiorno, quando volle mangiare qualcosa, vide che aveva la faccia di dietro, non riusciva a capire il perché e domandò alle bestie cosa gli fosse successo mentre dormiva. Allora il leone gli raccontò i fatti, spiegandogli che nella fretta gli aveva rimesso la testa al contrario, ma avrebbe rimediato all’errore: gliela strappò di nuovo, la girò, e la lepre gliela fissò con la radice. Ma il cacciatore era triste, non volle più tornare in città, e girò il mondo facendo ballare le sue bestie in pubblico.

Era appunto trascorso un anno, che gli avvenne di tornare nella città dove aveva liberato la principessa dal drago, e stavolta la città era tutta parata di scarlatto. Chiese all’oste il motivo, e quegli rispose: “L’anno scorso la figlia del nostro re doveva essere consegnata al drago, ma il maresciallo l’ha vinto ed ucciso, e perciò domani saranno celebrate le nozze, e allora la città era parata di nero, in segno di lutto; oggi è parata di rosso, in segno di gioia”. L’indomani, giorno delle nozze, quando fu ora di pranzo, il cacciatore disse all’oste: “Ci crede, signor oste, che oggi qui da lei mangerò pane della tavola del re?” “Sì”, disse l’oste “ma ci scommetterei anche cento monete d’oro che non è vero.” Il cacciatore accettò la scommessa e giocò una borsa con altrettante monete. Poi chiamò la lepre e disse: “Và, caro saltarello, portami un po’ del pane che mangia il re”. Il leprottino, che era il più piccolo, e non poteva passar l’incarico ad altri, dovette mettersi per la via. “ah,” pensava, “a correr così solo per le strade, i cani mi verranno tutti dietro”. E fu proprio così: i cani l’inseguirono per dare una pettinata alla sua bella pelliccia: ma egli, in men che non si dica, si rifugiò in una garitta, senza che il soldato se n’accorgesse. Arrivarono i cani a scovarlo, ma il soldato non voleva scherzi e menò botte col calcio del fucile, così che i cani scapparono urlando.