L’ATELIER   Dedicato a Piergiorgio Piffaretti e a colei che mi ha ispirato e mi ha aiutato a realizzare questo libro.   1 Aprì la porta dell’atelier Da sempre affacciata sulla valle Che ogni mattina si sveglia Al suono dei corni svizzeri Carichi di vitalità e sonorità Percepiti a chilometri di distanza E salì le scale mangiate ormai dai tarli Sempre più padroni del suo mondo. Osservò a lungo i dipinti ammassati uno sull’altro Senza neanche più andare a scrutare i particolari nascosti Che avevano fatto delle sue tele beni preziosi Troppo spesso divenuti oggetti da appendere Negli appartamenti della società bene ticinese. Per il mondo erano la donna con il bambino morto, Il pasto frugale, le bordel d’Avignon e Adesso sono rettangoli senz’anima. Il corno se ne stava lì Appeso al muro in silenzio Chiuso nella sua disperata angoscia Perché consapevole del fatto che mai potrà suonare Come i suoi compagni più felici Che appoggiano le loro basi in legno di abete Sui prati verdi delle vallate svizzere.   Il Piffa, così era chiamato da tutti quelli che amavano la pittura e le immagini del Canton Ticino, era un uomo che non riuscì mai a terminare la cesellatura del suo corno svizzero. Ed era sempre andato dritto nei suoi convincimenti, affrontando le situazioni più critiche e per questo aveva perso, sempre per non morire di rimpianti. Cercò in ogni istante della sua vita di assomigliare a quelle onde gigantesche ed indistruttibili che vedeva tutti i giorni durante i cinque mesi passati a studiare il mare e che gli riempirono la testa di capelli bianchi su di un grande naso, proprio come quello di suo padre, occhi verdi, sguardo fisso, labbra sottili e sorriso. Odiava spalancare il suo mondo alle persone che venivano a scegliersi i quadri e che arrivavano davanti alla villa, in cui viveva ormai da più di trent’anni, con l’intenzione di appropriarsene per vantare un Piffa in casa. "Andatevi a prendere le vostre tele direttamente nelle gallerie d’arte, che tanto qui sono tutte impolverate e senza cornice", si presentava sempre con la stessa frase a tutti quelli che si affacciavano al cancello della villa. Ma Carl neanche lo conosceva il Piffa. Se ne stava impalato fuori dal giardino a guardare un disegno, che ornava l’unico balcone della facciata principale del palazzo a due piani, quando il Piffa gli si avvicinò, "E’ un pò che la sto osservando!", disse curioso e poi aggiunse, "Cosa guarda?", e Carl rispose, "sono capre quelle dipinte lassù?". I due si fissarono solo per un attimo, poi il Piffa si sentì le parole in bocca, "Vuole venire a vedere il mio atelier?", e Carl accettò senza batter ciglio. Oltrepassò il cancello ed entrò nel giardino che circonda l’intera villa, come se la cosa fosse già stata decisa. Fu veramente l’unico e l’ultimo. "Non far caso al disordine, sai, ormai non dipingo più da molti anni e raramente vengo qui", il Piffa si fermò un attimo davanti all’ingresso e replicò, "I tarli si stanno mangiando tutto!" Al pianoterra, appena entrati, c’erano i suoi ultimi disegni raffiguranti un mondo fittizio, fatto di rosso spruzzato lì con rassegnazione e violentato da pennellate color arancio, dai toni aspri e lontani anni luce da quelli scelti per rendere delicata e lieve la realizzazione della toilette dell’unica donna amata. Al Piffa piaceva circondarsi di quello che lui chiamava l’ordine irregolare. Le tele si trovavano sgraziatamente accostate, stese lungo il pavimento e persino utilizzate per coprire fessure o per tenere aperto uno sportello. Fissarono a lungo i dipinti uno affianco all’altro. Sul tavolo, che si trovava in mezzo alla stanza, era appoggiata una testa in gesso con gli occhi asimmetrici, libri scritti a mano, un telo rosso. Affianco un cavalletto reggeva un quadro ancora completamente bianco, che dava l’impressione di essere stato messo lì apposta per divenire il centro focale di tutto quel caos regolare. I due salirono le scale che portano al primo piano rialzato dell’atelier, lentamente e silenziosamente quasi volessero evitare di far prevalere le proprie conoscenze acquisite nei rispettivi studi accademici. I rossi, gli aranci buttati sulle tele e martoriati da lunghe strisce di color nero, utilizzate per drammatizzare l’evento e sottrarre alla realtà del mondo le figure dipinte, stridevano fortemente coi toni delicati blu, verdi, gialli dell’unico quadro rimasto sopra. Carl si avvicinò a lei, tolse la polvere dalla figura e disse, "Chi è la modella di questo dipinto?", e magicamente lo spazio attorno a loro si riempì del suono potente di un brano. Il corno prese a suonare. Sembrava impazzito. Nelle loro orecchie penetravano le sonorità di un’intera orchestra che strilla la sua risposta alle trombe, ai clarinetti, ai sax tenori, con note acutissime piene di sfumature estasianti. A momenti, nella penombra dell’atelier, i loro occhi videro il corpo nudo della donna ritratta muoversi freneticamente con le braccia alzate e le mani a raccogliere i capelli. L’eccitazione sembrava raggiungere il suo apice. La musica che usciva dal corno, da sempre inanimato, stava per sfondare le polverose mura di quella stanza per esplodere con tutta la sua intensità giù in fondo alle ripide vallate, insieme ai pastori, alle capre danzanti, ai fauni suonatori di flauto. Poi tutto scese. I suoni si fecero soffici e delicati, quasi malinconici. Tutto calò improvvisamente, proprio quando la forza vitale del magma stava per inghiottire l’intero spazio. L’eccitazione scemò, le frasi si fecero meno intense, i groove echi lontani, le pulsazioni più lente. Il Piffa rivolse lo sguardo alla parete e Il corno se ne stava lì Appeso al muro in silenzio Chiuso nella sua disperata angoscia.     2   "Sono 4.75 franchi", Michel ed io pagammo i biglietti d’entrata al museo con la riduzione, grazie al tesserino scaduto dell’Accademia delle Belle Arti, frequentata insieme sei anni prima. Erano già passati circa due mesi da quando decisi, insieme al mio migliore amico, di lasciare il Canton Ticino, dove passai gran parte della mia vita, per andare a vivere a Caebourg. Michel ed io, caro Carl, ci trovammo un appartamento in affitto a centocinquanta franchi al mese in una stradina della Caebourg vecchia, tra la Cathédrale, padrona del punto più alto della città, che sovrasta con le sue imponenti navate e la rue des libraires. Vivevamo insieme, ma accadeva spesso di non incontrarci anche per parecchi giorni, per poi ristabilire in un batter d’occhio il legame inesauribile che ci univa. Erano due giorni che non ci vedevamo e quando il terzo giorno c’incrociammo sulle scale del palazzo, sfoggiammo un sorriso di circostanza come due conoscenti qualsiasi. Per fortuna ci fermammo subito ed iniziammo a ridere senza riuscire più a smettere. Michel era maledettamente folle e allo stesso tempo pacato. Era capace di starsene giornate intere rinchiuso in casa con lo sguardo fisso davanti ad una tela bianca, a pensare soltanto con quale colore dare inizio al suo prossimo dipinto. Poi si faceva trascinare dal mio entusiasmo. Quando chiudevamo la serratura della porta dimenticava tutto quello che aveva fatto prima e finiva per essere il più esagerato. Una volta uscimmo da casa, la sera, per andare in un locale cosiddetto "letterario" sulla Grand Rue, chiamato "fin du siècle". Percorremmo con il nostro solito passo veloce tutta la rue des libraires, svoltammo a destra per la rue de l’Hotel-de-Ville, che prosegue dritta cambiando nome in rue des chinoises ed entrammo sulla Grand Rue proprio a metà corso. Michel diceva di essere stanco, perché il giorno prima aveva attraversato tutta la città per andare da un tipo che voleva comprare una delle sue tele. "Sto impazzendo, cazzo!", gridò brutalmente e così riprese "Mi sembra che più dipingo male e controvoglia e più la gente compra i miei fottuti quadri", lo diceva con un fare sconsolato, come se fosse certo dell'inutilità della verve pittorica. "E’ la passione che ci devi mettere dentro", risposi. Ne avevamo parlato centinaia di volte e più passava il tempo, più m’intestardivo sul fatto che dovevamo fregarcene delle persone che compravano solo per il desiderio di possedere un oggetto da appendere ad un chiodo. "Il chiodo e il martello distruggono il fervore con il quale creiamo l’immagine che, sin dal primo schizzo di vernice steso sulla tela, idealizziamo dentro di noi", esclamai con tono solenne ed accademico. Michel rimase in silenzio e probabilmente si convinse che fosse giusto non cadere nella pura esecuzione estetica. La sua vera preoccupazione restava quella di trovare il denaro per l’affitto dell’appartamento. I soldi ci avrebbe permesso di resistere almeno per un altro mese. Eravamo arrivati davanti al locale. Io non mi sentivo per nulla stanco, anzi, provavo una forte vibrazione che cercava in tutti i modi di uscire dal mio corpo per crearsi un’immagine reale. Le persone, che sostavano a gruppi davanti all’entrata del "fin du siècle", mi osservavano curiose e pronte ad abbracciarmi, impazienti di fare la mia conoscenza. Ad un tratto mi ritrovai in mezzo ai verdi pascoli delle mie vallate, lasciate a più di trecento chilometri di distanza. Carl, non ci crederai ma rimasi con gli occhi chiusi per un solo istante e quando li riaprii Michel era scomparso. Non mi stupì. Faceva assolutamente parte del suo modo di essere. Usciva a forza dal suo atelier, iniziavamo insieme la serata e tornava a casa da solo il giorno dopo con mille storie strane da raccontare. Entrai nel locale intenzionato a trovare Michel. Chiesi in giro se qualcuno l’avesse visto, attraversai per intero la sala, mi appoggiai al bancone, ordinai un bicchiere di rum, senza ghiaccio, e me ne tornai a casa. Quando passeggiavo con Michel mi perdevo talmente a chiacchierare a raffica che non riuscivo mai a notare quello che mi circondava. Sai Carl, a me piaceva da impazzire osservare! Anche se vivevo a Caebourg da neanche un mese, avevo imparato a conoscere tutti quelli che abitavano nella parte vecchia della città, che si snoda tra il fiume e il grande Boulevard de l’archéologie. Allo stesso modo mi ero abituato ad incontrare alcuni personaggi in posti prestabiliti, che passavano lì in certe ore precise. Scrutavo i tratti, i gesti, i tic, gli umori senza che loro sapessero chi io fossi. Piangevo quando la nana di rue du marché, che se ne stava tutto il giorno seduta affianco al portone della copropriété, rientrava nel suo appartamento, sola, per passare le ultime ore della giornata ad aspettare il giorno dopo e potersene stare lì su quella sedia a guardare la gente passare. Entravo nell’androne di qualche bordello, affacciato sulla strada che fiancheggia i giardini pubblici, per gioire con le tenutarie ogni volta che un cliente usciva dalla stanza, contento della prestazione della sua ragazza. La puzza di marcio si mescolava al dolce profumo delle puttane. Conoscevo anche le piazze, gli alberi, i negozi, le nuvole, che sembrava stessero lì da sempre. Quando passeggiavo da solo ognuno di loro mi salutava e mi raccontava quello che gli era successo durante il giorno. "Ciao Piffa! Lo sai che vogliono costruirmi una fontana al centro che emetterà un getto d’acqua alto più di centoquaranta metri?", mi pareva dire la piazza e la fila di alberi rispondere ad unisono, "Sei sempre la solita esagerata, già è tanto se ti mettono una fontanella per far bere i cani". E mi sembravano risuonare nelle orecchie le risate fragorose dei negozi che affacciavano le vetrine decorate ed ordinate sulle ali vecchie e decrepite della piazza, indispettita da tanto baccano. Prima di rientrare in casa non dimenticavo mai di guardare dritto negli occhi la zuppa di cipolle, racimolata al bistrot da Lelian le Maudit all’ora di chiusura, dopo che tutti i clienti avevano mangiato in abbondanza. Come ti raccontavo all’inizio della storia, Carl, erano due giorni che non vedevo Michel, così per festeggiare al meglio la riunificazione decisi di portarlo al Museo d’arte, da poco allestito al di là dal Boulevard de l’archéologie, tra la città vecchia e i periferici quartieri orientali di Caebourg. Rimisi in tasca la tessera dell’Accademia ed entrai seguito da Michel. Ero eccitatissimo all’idea di poter guardare da vicino i capolavori del passato, sfogliati e venerati sui manuali di scuola o sulle monografie acquistate in libreria. "Stai preparando qualcosa?", mi chiese Michel. "Cioè? Che cosa vuoi dire?", risposi sorpreso. "Non ti ho visto dipingere molto ultimamente. Non vorrei che ti fossi scordato come si fa ad usare il pennello", esclamò scherzando, ma con un giusto accenno polemico, riferito al fatto che non stavo contribuendo assolutamente al pagamento dell’affitto. Da lì a poco la signora, che ci aveva affittato l’appartamento, sarebbe salita al terzo piano, dove alloggiavamo, per chiederci i centocinquanta franchi del secondo mese. "Ho delle idee in testa, boh!", gli risposi. Michel pensava di conoscermi bene e mi bruciò così, "Tu quando decidi di andare per musei, significa che stai per scoppiare con qualcuna delle tue follie", disse sicuro di sé. Non feci in tempo a rispondere e già mi ritrovai a viaggiare su di un toro scalpitante che si agitava frenetico a destra e a sinistra, scalciando con veemenza e muovendo impazzito ogni parte del suo corpo. Ero quasi riuscito a focalizzare la figura nuda di una fanciulla, seduta e circondata da due uomini intenti a discutere tra loro, che mi ritrovavo improvvisamente davanti ad una scena da circo con un domatore al centro dell’arena e una ragazza seduta su un cavallo bianco, che girava in circolo a velocità folle. Mi muovevo così rapido da una sala all’altra del pianterreno che a stento riuscivo ad impressionare nella mente e ad immagazzinare tutto ciò che vedevo. Mi sentivo in mezzo ad un vortice, mi facevo trascinare dall’impulso. Andavo avanti, Carl, per non morire di rimpianti e lo stesso feci per tutta la vita…per non morire di rimpianti. Michel, invece, si comportava come se fosse stato davanti ad una delle sue tele bianche. Si era seduto su un divanetto in velluto rosso, uno di quelli utilizzati all’interno dei musei per dar la possibilità al visitatore di godersi appieno i particolari dei dipinti preferiti. Lui fissava ogni minima crepa, cercando di trovare anche il più invisibile segreto che, come lui stesso diceva, era "volutamente nascosto dall’artista". Mi avvicinai a Michel. Stava osservando un olio su tela che ritraeva una donna stesa su un sofà, con indosso solamente un bracciale, un fiocco nero al collo, un paio di scarpe da camera e un nastro tra i capelli. Aveva lo sguardo fisso, penetrante… Michel mi vide arrivare e senza distogliere gli occhi da quelli della figura dipinta mi fece segno con la mano di sedermi affianco a lui. Io obbedii. "Assomiglia a Françoise!", mi disse. "Per me potrebbe essere un vaso di fiori", risposi io. Michel rimase in silenzio. Pensavo volesse dialogare, al solito, sui diversi modi con cui si può guardare un’immagine. Anche qui avevamo idee completamente diverse. Lui amava infilarsi dentro i quadri, cercava di trovare a tutti i costi una spiegazione. Per me, invece, La Gioconda poteva essere benissimo una ballerina di cancan o una geisha giapponese. Sarebbe stato indifferente. Michel iniziò a piangere. Rimasi sorpreso. Mi avvicinai ancor più a lui, ma non mi sembrò subito opportuno spronarlo a smettere. Lasciai che si sfogasse per qualche minuto. Continuava a guardare dritto negli occhi la donna nuda davanti a lui. Poi abbassò lo sguardo e si mise il volto tra le mani. "Michel…Michel…", esclamai, preoccupato per il mio amico e continuai cercando di capire il motivo che lo rendeva così triste. Gli accarezzai dolcemente una guancia. "Stai ancora pensando a quella ragazza incontrata al café?" "E’ così bella", e ancora, "non vivo senza di lei…non ci riesco…", mi rispose. "Ma se la conosci appena!", dissi senza convinzione, posando il mio braccio sulle sue spalle. "Mi è bastato fissarla negli occhi, come con questo quadro, per capire chi fosse". Michel ed io parlavamo raramente delle ragazze che ci capitava di incontrare in giro per la città. In una di quelle notti in cui tornava tardi, ben più tardi di me, mi aveva raccontato di Françoise, ma nel dormiveglia non avevo immaginato potesse essere così importante per lui. Michel prese coraggio, smise di piangere ed iniziò a raccontare tutta la vicenda. "Dio mio, come è andata a finire. Com’è finito tutto!" Io rimasi in silenzio per non disturbare il suo racconto e lui, così, continuò "Ci siamo conosciuti una settimana fa in quel maledetto Café des courses e abbiamo continuato a frequentarci nello stesso posto tutte le sere successive. Ieri, invece, avevamo deciso di darci appuntamento di fronte alla Cathédrale, per andarcene in giro da soli, magari lungo il fiume, abbracciati e lontani da inutili schiamazzi notturni. Era la prima volta che ci vedevamo di giorno, in una piazza illuminata dal sole, e non nel solito café in cui lei abitualmente s’intratteneva tutte le sere". "E venne?", chiesi dubbioso. "Si, era lì prima di me…L’avevo già notata da lontano. Era in piedi, con la camicia gialla appena abbottonata sotto il ciondolo che teneva appeso al collo, proprio come la prima volta che la vidi. Françoise non si accorse che mi stavo avvicinando a lei". Michel smise per un istante di parlare. Era visibilmente agitato, tanto che si alzò dal divanetto ed iniziò a camminare, con me al suo fianco, intenzionato a dirigersi verso la scala che porta al primo piano del museo. Aveva ancora voglia di sfogarsi. "Così la chiamai. Françoise!", ricominciò a raccontare. "E lei?", dissi. "Si voltò di scatto verso di me…Vidi il suo volto…Era più bella del solito…La distingueva da tutte le altre un’aria dolce e allo stesso tempo crudele, che mi costringeva a cadere ai suoi piedi." "E che cosa accadde?", esclamai. Salimmo insieme le scale e raggiungemmo la grande sala rettangolare che ospita i capolavori della pittura europea di inizio secolo. "Mi avvicinai a lei abbastanza da poter sentire il profumo emanato dai suoi lunghi capelli, intrecciati in uno chignon e la baciai…ma lei rifiutò abbassando con sgarbo la bocca verso il basso. Restai immobile, senza voce…", Michel fece una pausa, come per meglio focalizzare nella sua memoria quel terribile istante, ma riprese quasi subito. "Aspetta un poco, mi sussurrò Françoise appoggiando la bocca al mio orecchio…così disse, Piffa, ti rendi conto?" Ti assicuro, Carl, che rimasi impietrito. Non l’avevo mai visto così preoccupato. Finalmente in quel preciso momento mi stavo rendendo conto quanto fosse importante averlo vicino a me. Capii che, nonostante ci avessi impiegato una vita intera, sarei riuscito a diventare con lui una sola cosa. Proprio così, una vita intera! Avrei unificato le nostre volontà per liberarlo dalla pressante sottomissione che le leggi della casualità lo costringevano a vivere questa incredibile situazione. Avrei voluto stringerlo tra le mie braccia con tutta la forza e tirargli fuori il suo sentimento verso Françoise per gettarlo lontano da lui, per sempre. Michel non me ne diede il tempo, perché ricominciò, dicendo, "C’eravamo baciati il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti al café des courses e ci siamo visti tutte le sere consecutive. Ci siamo baciati e abbiamo fatto l’amore…Dio mio che bello" "Ma allora perché si è comportata così?" "Non lo so. Sai cosa mi disse dopo? Che presto sarebbe tornata a Méchant, dove era nata e vissuta con la madre prima di giungere in città, e che tra noi si era creata una relazione un po’ troppo superficiale per diventare veramente importante." "Quando ha intenzione di andare a Méchant?" "Partirà fra tre settimane." "Beh, ci si può trasferire anche noi. Ci troviamo un altro appartamento in affitto, magari risparmiamo pure…mi piace quel posto, sembra di essere tra le nostre vallate", dissi con la sola intenzione di farlo almeno sorridere. "Lei mi ama, ne sono certo, ma crede che il nostro legame sia uno scherzo da café notturno. Capisci? Un modo per sopravvivere alla solitudine e allo smarrimento di chi, come noi, è lontano da casa." "E tra voi è così?" "Non lo so" "Ami la sua bellezza?" "La amo e basta". C’eravamo guardati negli occhi per tutto il tempo, camminando uno vicino all’altro su e giù per la grande sala che occupa per intero il primo piano. Michel smise di parlare e un attimo dopo cessammo anche di fissarci per volgere lo sguardo al dipinto sospeso sulle nostre teste. Rappresentava il corso impetuoso di un fiume, pieno di vitalità e di un’insaziabile vigoria, prodotta dal desiderio vorticoso dei mille mulinelli, che s’infilavano tra le alte e strette rocce del suo letto. Due case, poste ai lati del quadro, chiudevano il corso del fiume e lo costringevano a prendere una direzione ben precisa. Le sue acque fredde quasi lambivano le porte del piccolo borgo e sembrava volessero entrare, forti dell'irrefrenabile corrente, nelle ripide vie che l'avrebbero allontanato da un destino predeterminato. In effetti, una lontana pianura, incastrata a forza tra le case, dava l’impressione che il fiume ce l’avesse fatta a raggiungere la sommità del borgo, incuneandosi fra i viottoli. Soltanto un suono familiare allontanò la nostra attenzione dal quadro, "Piffa! Michel!", esclamò ad alta voce un ragazzo, che camminava veloce dal fondo della sala, diretto verso di noi. "Ciao Emile!", risposi alzando il tono della voce per fargli capire che mi ero accorto di chi fosse. Si avvicinò e ci strinse la mano. Emile Ferrand, venticinque anni, studente alla facoltà di lettere, nato a Caebourg ma vissuto gran parte della sua esistenza nella campagna circostante, abbandonata cinque anni prima per tornare, come diceva lui, alle sue "vere origini", era il mio più accanito sostenitore. Lo incontrai, la prima volta, al bistrot che si trovava proprio di fronte al portone del mio palazzo. Andavo a mangiare lì quando mi svegliavo tardi la mattina e non avevo voglia di mettermi a cucinare. Gli raccontai del mio trasferimento dal Canton Ticino a Caebourg e dell’intenzione di trovare un ambiente in cui poter esprimere liberamente le mie idee. Gli dissi anche che volevo costringere il mondo intero ad intuire una volta per tutte il significato della caducità e dell’effimeratezza della società in cui era avvolto. Parlavo con Emile senza freni inibitori, perché la sua innocenza mi permetteva di renderlo curioso e attento a qualsiasi argomento da lui mai trattato. Non mi lasciò più, nonostante la mia messianica generosità nascondesse in realtà una cupida avarizia, un maggior gusto nel prendere che nel dare. "Sono così contento di vedervi", esclamò Emile con voce squillante. "Sei solo?", disse Michel. "Sì, oggi non ho lezioni all’università e ne ho approfittato per venire qua", rispose Emile. "Scommetto che il Piffa ti ha parlato talmente bene di questo museo che sei stato costretto a venirci", chiuse il discorso Michel, che subito si era accorto della predilezione di Emile nei miei confronti e ogni volta, con un pizzico di malizia, cercava di ricordarglielo. Ma Emile era un puro come non se ne trovavano facilmente nella società "caebourgeois" e non se ne accorgeva, anzi ogni volta che gli davo la possibilità di apprendere cose nuove, ne approfittava per elogiarmi senza mezze misure. "Pensate che per andare all’università da casa mia ci passo davanti tutte le mattine e non mi sono mai preoccupato di sapere cosa contenesse questo palazzo", disse Emile senza timore. "Quando usciamo tutti insieme per divertirci un pò?", chiesi rivolto ad entrambi, con l’intento di cambiare discorso. Michel si voltò dall’altra parte come per non sentire ed Emile fu costretto a rispondere "Domani sera mi vedo con gli amici dell’università in un locale che si trova non lontano dalla stazione dei treni." "Per caso è quel posto dove organizzano serate di cabaret?" "Sì, lo spettacolo inizia alle nove e mezza. Siete invitati, se vi fa piacere." "Come si chiama il locale?" "Au chèvres danceant, ci sarete?" "Sicuro, veniamo! Vero Michel?", risposi col solito entusiasmo. Lui rimase nel suo silenzio in preda a chissà quali pensieri orrendi.       3   Lei era vestita completamente di rosso, con una camicia senza maniche e una gonna lunga quasi fino ai piedi. Lui era teneramente appoggiato al corpo della giovane donna. Si trovavano all’interno di una stanza angusta e fredda, le pareti pitturate di blu e un grande letto bianco appoggiato al muro con affianco soltanto una sedia. Dalla finestra aperta s'intravedeva uno sfondo di case multicolori, affrescate con vernice rossa, bianca e gialla. Fu il mio lasciapassare per continuare a vivere a Caebourg, perlomeno un altro mese. "Trecento! Non un franco in più", esclamò il titolare della galleria d’arte sulla Grand Rue, trovata grazie ad un'indicazione di Michel, che lì aveva tentato di vendere senza successo una delle sue tele. Era il risultato della mia foga. Una sera per dipingerlo e un'intera mattinata affinché i colori pastello si asciugassero. Arrivai sulla Grand Rue a piedi, come al solito, con la mia tela, ancora viva, sotto il braccio. Mi presentai all’entrata del piccolo negozio completamente bagnato, per colpa della pioggia incessante. I colori piangevano. Entrai e mi rivolsi all’uomo che era in piedi davanti a me. "Salve, vorrei che desse uno sguardo a questa mia opera, se non le dispiace", dissi guardando fisso negli occhi la vittima, proprio come fanno i disoccupati durante un importante colloquio di lavoro. "Se la scarti forse riesco a vederla!", rispose lui bruscamente. Feci un segno positivo con la testa e tolsi la plastica trasparente, utilizzata per non peggiorare la situazione della tela, ancora visibilmente fresca. L’appoggiai a terra, l’uomo si avvicinò ed iniziò a guardarla con estrema perizia. Storceva la testa a destra e a sinistra come se stesse osservando un quadro astratto. A me veniva da ridere, "è solamente un abbraccio. Imbecille!", avrei voluto dirgli. Dopo tanti dubbi e sbuffi, l’appoggiò su un cavalletto vuoto che aveva esposto davanti all’unica vetrina del negozio. Mi chiese se la cifra da lui proposta mi andava bene e lo prese. Sono sicuro che rimase colpito dai colori brillanti resi tali dalla vernice ancora non asciutta. Magari il giorno dopo si sarebbe ritrovato un quadro sbiadito e smorto. Peggio per lui. Tornai a casa, pagai immediatamente l’affitto e ricominciai a dipingere senza neanche scendere al bistrot per uno spuntino. Carl, non immagini cosa significasse per uno squattrinato come me aver venduto quell’abbraccio. Ricordo che non riuscivo a stare fermo, mi muovevo frenetico per la stanza, nella quale tenevo gli attrezzi per dipingere, e guardavo i rimanenti centocinquanta franchi, tenuti avidamente fra le mani. Ero attorniato da un disordine che, come diceva sempre Michel, rendeva il mio atelier pieno di gioia. Io lì mi ci trovavo completamente a mio agio, mi faceva entrare nella giusta ottica, mi permetteva di assecondare i miei atteggiamenti spontanei. Amplificazioni delle espressioni delle mie emozioni…e tutto rilassato, con la cognizione del tempo, vibrazioni che trovavano la strada per arrivare fino a me. Stavo, in quel preciso istante, recuperando la vera essenza di una rara felicità. Ruppi il vincolo. Le mie tele erano sparse dappertutto, per terra, sulle sedie, sul tavolo. Michel ancora non era rientrato e mancavano poco più di venti minuti all’appuntamento con Emile al cabaret. Non me ne preoccupai. Aprii la finestra ed iniziai a dipingere. Presi il pennello, assecondato dalla febbre del colore, e cominciai, di getto, a materializzare sulla tela tutto quello che vedevo fuori della stanza, senza uniformità. Buttavo il colore sul cartone senza ritegno, con violenza, senza passare e ripassare, con tale rapidità che a stento tenevo dietro al volo dell'immaginazione. Ero assolutamente concentrato e non mi accorsi dell’arrivo di Michel. Aveva già aperto la porta, si era tolto l’impermeabile e si era seduto dietro di me chissà da quanto tempo. Mi voltai e posai il pennello. Aveva uno sguardo raggiante e allo stesso tempo fiero delle sue convinzioni. "Che ti dissi al museo? Sei riuscito a fottere qualche compratore, vero?", esclamò sicuro di sé e continuò "Ho incontrato l’affittacamere, mi ha confermato che le hai consegnato l’intera somma. Non male per un dipinto!" "L’ho venduto per trecento franchi al tipo che sta sulla Grand Rue. E con gli altri centocinquanta stasera ci giriamo tutti i locali di Caebourg fino a domani mattina, capito?", risposi quasi con le lacrime agli occhi per la felicità. "A proposito, a che ora ci dobbiamo incontrare con Emile?" "Fra quindici minuti." Era la serata giusta per far distrarre Michel dal pensiero dell’imminente abbandono da parte di Françoise. La notte per lui non fu migliore del giorno. Passò tutto il tempo, fino all’alba, appoggiato al davanzale della finestra, con lo sguardo fisso al cielo plumbeo. Il suo letto rimase tale e quale a come lo aveva lasciato la sera prima, vale a dire assolutamente intatto. Per non permettere all’oscurità di appropriarsi del mio migliore amico cercai con tutto me stesso di non addormentarmi. Senza disturbarlo tenni un occhio aperto tutta la notte rivolto verso di lui. Gli amici, lasciati in Ticino, mi chiamavano "jouet", perché da piccolo ideavo degli scherzi talmente divertenti che riuscivano a coinvolgere anche i bambini più timidi e restii a parteciparvi. Così non mi fu difficile convincere Michel ad organizzare una burla ai danni d’Emile. Puntai sul fatto che considerava il mio rapporto con Emile un pò troppo intimo e quindi, pensai, non si sarebbe tirato indietro. Pianificai il tutto già il giorno prima, al rientro dal museo. In fondo avrei fatto del bene ad entrambi. La burla consisteva in questo: come da programma saremmo andati al cabaret con gli amici di Emile per vedere le ballerine ungheresi che si esibivano a tempo di valzer. Poi avremmo messo una scusa qualsiasi per allontanarci, Michel, Emile ed io dal resto del gruppo e poter così attuare il piano. Conoscevo, nella periferia della città, non lontano dal locale, un capannone abbandonato, pieno di cianfrusaglie lasciate lì perché senza valore. Mi era capitato di andarci una volta per recuperare delle vecchie cornici. Avrei proposto ad Emile di scavalcare il cancello e di introdurci nello stabile per rubare opere d’arte di valore inestimabile, tenute da un famoso collezionista d’antichità. Sarebbe stato un gioco da ragazzi perché, una volta entrati, ci saremmo trovati davanti ad una serranda senza lucchetto. Già tutta questa fase avrebbe, comunque, messo in apprensione Emile, che fra tutti era quello che meno amava il rischio. Il bello sarebbe avvenuto dopo. Lui non era un grande amatore, anzi si trovava spesso in difficoltà con le ragazze di città a causa della sua natura riservata e, diciamo così, bucolica giacché per quasi vent'anni visse in mezzo ai pascoli con i genitori. Per questo avevo preso contatto con una ragazza, che lavorava in uno dei tanti bordelli di Rue du fleuve. Essa per quaranta franchi avrebbe accettato di trovarsi lì, accompagnata da Michel, e di appartarsi con Emile. Era tutto perfetto! Una volta usciti dal cabaret, Michel si sarebbe allontanato con una scusa qualsiasi per andare a prendere la prostituta e portarla dentro il capannone, prima che noi giungessimo. Per arrivare al "Les chèvres danceant" bisognava attraversare tutta la città vecchia, passare il ponte che scavalca il fiume e raggiungere la stazione centrale dei treni. Uscimmo di casa con l’intenzione, stavolta, di prendere un bus, visto che eravamo già in ritardo e che a piedi ci avremmo impiegato più di mezz’ora solo per arrivare al ponte che unisce il centro storico al quartiere Saint Jacques. La fermata dell’autobus era già affollata. Era smesso di piovere e si era alzato un vento gelido che costringeva tutti a chiudersi in pesanti cappotti. Michel indossava un lungo impermeabile nero che lo avvolgeva completamente, tanto da renderlo quasi irriconoscibile se non fosse stato per le basette arruffate e per il naso appuntito che lo distingueva da chiunque altro. Arrivò il bus ed entrammo per primi, facendoci largo tra la folla, senza pagare il biglietto della corsa. I posti a sedere erano già tutti occupati, così ci sistemammo in fondo alla vettura per restare perlomeno appoggiati. Il mezzo si riempì, l’autista chiuse le porte e partì a razzo. Non riuscii a vedere in faccia l’uomo che sedeva alla guida del pesante bus, ma ti giuro Carl che non dimenticherò mai quel breve viaggio. Sfrecciammo dritti per il grande boulevard de l’archéologie sulla corsia riservata ai mezzi pubblici. Feci appena in tempo a rendermi conto di quello che ci stava capitando, che eravamo già arrivati davanti al Palazzo delle stampe antiche. Voltammo a tutto gas per rue des italiens senza effettuare fermate, con la gente che urlava, sbraitava e bestemmiava contro quell’ossesso. Ma lui andava dritto come un fulmine verso un passaggio pedonale pieno di gente su per uno stretto vicolo in salita, che ci stava portando di nuovo sul boulevard appena lasciato, con l’acceleratore al massimo. Quando giungemmo in cima alla salita feci segno a Michel di stare tranquillo perché sicuramente avrebbe rallentato un pò per vedere cosa ci fosse oltre il dosso, invece il pazzo continuò ancora più veloce. Scendemmo a capofitto su una di quelle strade incredibilmente ripide, nei pressi dell’università, col muso del bus puntato verso il Rond-Point des bastions e quello schiacciava ancora di più sull’acceleratore! Entrammo nella rotatoria, senza dare precedenza alle altre vetture, con le ruote che sembrava stessero per cedere a causa della brusca sterzata. Filavamo sicuramente a più di cento chilometri l’ora senza tregua fino in fondo al boulevard che porta all’entrata del ponte sul fiume dove c’era un incrocio fortunatamente sgombero di pedoni ed esplodemmo con un sobbalzo appena all’intersezione in cui la strada, passato il ponte, ricomincia a scendere verso rue du temple. Arrivammo davanti all’edificio sacro con una sterzata che ci schiacciò tutti addosso al fianco sinistro del mezzo. Tutti gridavano per lo spavento, Michel no! Stava incastrato tra un robusto signore, che cercava senza successo di farsi largo a spintoni per aumentare lo spazio tra lui e gli altri e una ragazza dallo sguardo incredulo, con il volto sorridente. Sembrava di essere su uno di quei diabolici macchinari del luna-park, in cui i passeggeri si lasciavano sobbalzare a destra e a sinistra. E per lo più gratis. Un attimo dopo c'involammo su rue St. Jacques e proprio quando cominciavo a divertirmi eravamo già arrivati a destinazione. "Gare centrale!", urlò l’autista più pazzo che mi capitò di incontrare. Scesi con Michel al mio fianco, guardai l’ora e rimasi immobile davanti al capolinea del bus, aspettando che lo spazio attorno a noi due mi permettesse un qualche ragionamento sensato. "Ci vuole un drink! Abbiamo solo venti minuti di ritardo", esclamai. Il bar della stazione faceva proprio al caso nostro! Era un locale in cui la gente entrava per bere velocemente una cosa qualsiasi tra una partenza e l’altra. Era frequentato da anonimi viaggiatori infreddoliti in cerca di bevande calde, caffè, the oppure dagli habitué della stazione, cioè tutti coloro che vivevano o meglio cercavano di sopravvivere in mezzo a quel via vai: i clochard. Alcuni di loro si potevano permettere di pagare e quindi ordinavano con sfrontatezza whiskey scozzese e cognac delle migliori marche, altri bevevano birra o vino in cartone. Entrammo nel bar dirigendoci al bancone affollato. "Due bicchieri di rum, per favore!", gridò Michel alzando la mano per meglio farsi notare. Le persone che si trovavano davanti si girarono verso di noi con aria di sfida. Eravamo troppo rilassati. Bevemmo alla goccia e ordinammo il bis. Venticinque minuti di ritardo. Pagai i drink ed uscii dal bar da solo. Mi girai attorno. Michel si era già incamminato col suo solito passo veloce. Cercai di chiamarlo ma l’alcool aveva fatto subito effetto, così mi misi a correre per raggiungerlo. Lui se n’accorse e mi sfidò ad una gara. "Dai Piffa! A chi arriva per primo al cabaret" Non mi diede neanche il tempo di prepararmi alla partenza che già era scattato con l’accelerazione di un felino. Cercai in primo tempo di raggiungerlo con l’intenzione, poi, di superarlo in dirittura d'arrivo, ma dopo i primi metri iniziai a barcollare… Michel si girò in segno di sfida e mi esortò a muovermi. "Siamo in ritardo. Forza!", esclamò con voce tremula. Cercai di radunare le ultime forze rimastemi e senza rispondere, per non sprecare inutili energie, ripresi a correre come un pazzo. Le gambe mi si piegavano per lo sforzo e per le mille risate che mi facevo vedendo come si agitava Michel. Lui prendeva sempre tutto sul serio! Sembrava un maratoneta. Si era legato l’impermeabile alla vita e aveva alzato le maniche della camicia per meglio sfruttare il movimento delle braccia. Era veramente buffo. La gente attorno a noi guardava con curiosità, ma in quel momento non ce ne fregava niente. Arrivammo al cabaret delle capre ansimanti uno affianco all’altro. Individuai subito, tra la folla in attesa per entrare, Emile e i suoi amici dell’università. Ci avvicinammo a loro, che per fortuna erano parecchio avanti alla fila, facendoci spazio tra le persone. Salutai tutti, uno per uno e lo stesso fece Michel. Emile per l’occasione indossava un vestito nero elegantissimo sotto ad un cappotto in pura lana e aveva appoggiato in testa un cappello a cilindro, un pò retrò ma in ogni caso in tinta con il resto. Mi veniva già da ridere pensando al momento in cui l’avrebbe visto la ragazza del bordello. "Quando vai a prendere la prostituta dille che dovrà incontrare un importante uomo della finanza mondiale", dissi sottovoce a Michel. "Sì, così ci chiede più soldi per la prestazione!", rispose con tono alterato e con un leggero sorriso. Scoppiammo a ridere tra l’incredulità di chi ci stava vicino. Gli amici dell’università mi parvero, a primo impatto, tutti abbastanza tranquilli. In realtà mi era capitato già di incontrarne alcuni durante una delle tante uscite ai café del centro città, ma non avevo la minima idea in quale precisa situazione avevo avuto modo di conoscerli. Emile nel frattempo era arrivato alla biglietteria e mi fece segno di allungargli i quindici franchi per l’entrata al locale. Prese il ticket per tutti ed entrammo. Percorremmo un lungo e buio corridoio, con alle pareti coloratissimi pannelli che sembravano esser stati dipinti in totale libertà d’ispirazione da artisti differenti in momenti diversi, e giungemmo nella grande sala, illuminata soltanto dalla luce delle candele. Era affollata di signore dai grandi cappelli fioriti e da uomini avvolti in lunghe sciarpe bianche appoggiate su camicie inamidate. La luce sembrava avere la sua sorgente nel colore acceso delle larghe gonne delle ricche signore e nei lucidi riflessi dei capelli rossi, impreziositi con striature di tintura nera come dettava l’ultima moda. Lo spazio attorno a me appariva sfocato e in via di dissolvimento. Nell’oscurità immensa folgoranti lampi di luce ravvivavano le mie pupille. Un mondo intero era lì, fuori di me, ma tutta quell’uniformità mi offuscava la vista: corpi che svanivano e poi riapparivano, una lenta pulsazione, un continuo fluire, nessuno spazio all’immaginazione, le più piccole gocce all’estremo silenzio. Michel stavolta si muoveva rapido tra le coppie danzanti in attesa dello spettacolo, fissando ora un grande cappello piumato blu indossato con estrema naturalezza da una ragazza vestita di verde ora la scollatura volgare di una donna dallo sguardo severo. Questa si era accorta di essere osservata, ma con dispotica indifferenza se ne stava seduta al tavolo, ostentando una maschera priva d'espressione. Mi girava la testa. Emile e i suoi amici mi avevano letteralmente accerchiato, facendomi le domande più strane e bizzarre sul mio modo di vivere, a dir loro alla "bohemienne", mentre quel pazzo di Michel continuava ad allungarmi drink uno dopo l’altro, senza tregua. Sembrava uno scaricatore del mercato, solo che invece di passarmi cassette piene di frutta mi allungava rum e rum e ancora rum. "Dai Piffa, raccontagli di quella volta che la gendarmerie voleva torturarti nella stanza della suora provetta dentista!", disse Emile, con gli altri che mi si avvicinarono per meglio sentire, curiosi di conoscere la storia. Era una di quelle favole che raccontavo quando mi trovavo di fronte a serate noiose e a persone silenziose, poco disposte a lasciarsi andare. Mi succedeva di "spararle" solo in tali occasioni e siccome le inventavo, in quel momento proprio non mi veniva in mente nulla. Così iniziai ad immaginare, "Ero in riva al mare con gli amici, quelli di sempre! Arrivò la gendarmerie di corsa…nessuno si mosse. Ci portarono in caserma dove spiegammo l’accaduto, ma ci veniva da ridere in faccia agli agenti. Lucil fu pregato di entrare nella stanza numero 13 per subire le angherie della suora. Poi toccò a me…ma convinsi tutti che non sarebbe stata una buon’idea. Ci lasciarono andare e tornammo sulla spiaggia." "Perché vi hanno portato in caserma? Che cosa stavate facendo al mare?", disse uno di loro. Non mi veniva più niente da inventare, allora cercai una conclusione qualsiasi. "Era già calato il sole e un silenzio assoluto ci fece precipitare in un profondo incubo…" Gli altri stavano tornando alla carica, ma per fortuna si spensero le luci, si aprì il sipario e tutti in sala diressero lo sguardo nel medesimo punto. L’intera platea fissava incredula il corpo in ombra di una fragile sirena che si trovava, sola, in piedi sul palco, con le gambe aperte. Vidi Michel correre dal bancone dei drink diretto verso di me. Mi raggiunse, mi aprì con forza la bocca e mi versò per intero un bicchiere del mio preferito. "Beviiii!", esclamò appena dopo che avevo mandato giù tutto. Si riaccesero improvvisamente le luci delle candele. Il rum più buono che avessi mai assaggiato! Uscirono da dietro le quinte le altre ballerine e coprirono per intero lo spazio occupato dal palco. La ragazza uscita per prima si posizionò al centro, gridò a squarciagola una frase in ungherese e partì la musica. Tatata tatata tatata taratata taratata tatata… Pampum pampum ratatata ratatata… Le larghe gonne bianche, indossate su lunghe calze nere, erano utilizzate dalle ballerine per dare movimento allo spettacolo, ora alzandosi mettendo in mostra le gambe ora abbassandosi slanciando in avanti il busto e mostrando il décolleté. Stridono i violini, restano in sottofondo le voci… Gli stessi signori dei costosi cappelli e delle lucide giacche, dimenticarono le mogli e si sbavavano addosso, bramando di possedere quei corpi seminudi. Passarono pochi minuti e già regnava il caos! Pam…grrr…pam…grrr…pam…grrr…pampampam… La folla, ormai in balìa dello spettacolo, si muoveva come su un’onda, su e giù lungo la sala proprio come sull’autobus che ci aveva portato alla stazione centrale. Le gonne vennero sfilate e buttate in mezzo alla folla assatanata, diventando in pochi secondi stracci da portare a casa come ricordo. Furono slacciate e tolte lentamente le scarpe, infine le calze nere. Alcuni cercarono di salire sul palco, ma vennero fermati dal servizio d’ordine che barricava e proteggeva l’intero corpo di ballo. L’eccitazione era al massimo. Succedeva di tutto: gli uomini erano chi più chi meno in fibrillazione a causa di tanta bellezza, le signore, indignate, cercavano di trascinare fuori da quell’orgia i mariti. La musica aumentò di volume e crebbe nel ritmo, fino a diventare assordante. L’orchestra buttò via le tube, gettò per terra i clarinetti, i violoncelli e si trasformò in una banda gitana…un groove ossessivo era ripetuto all’ossesso… Folie…fleur…pampampam…repete…pampampam…repete…pampampam… Le chitarre e le fisarmoniche tenevano un ritmo incalzante e lavoravano senza pause per i discordanti assolo dei violini. Si stava per raggiungere l’apice! Paramparam…pampampam…paramparam…grà…pampampam… Le ragazze ungheresi, che per tutto il tempo avevano ballato e si erano dimenate sparse senza un reale ordine, dettato internazionalmente dalle regole del corpo di danza, si allinearono proprio sul bordo del palco. La solita fanciulla gridò l’urlo di battaglia e le compagne obbedirono, come fanno i soldati all’ordine di un superiore, togliendosi il reggiseno e restando nude dalla vita in su. Successe l’incredibile! La massa sfondò le barricate, alcuni caddero altri, invece, riuscirono a raggiungere il palco. La banda perse gli strumenti…i violini volarono in aria…grà, le percussioni sulle teste di qualche malcapitato…pam…pam. Presi Michel ed Emile, increduli per quello che stava accadendo, e li spinsi in avanti. Decisi di salire anch’io insieme con gli altri. Michel, ormai completamente ubriaco, fu il primo a reagire al mio invito cominciando a farsi largo tra la folla. Con un gesto atletico s'involò come un angelo sul palco e cadde a peso morto sull’unica ballerina ancora rimasta. Tutte le altre erano riuscite bene o male a scappare in tempo ed evitare il peggio. Quella, invece, nel fuggifuggi era caduta a terra. Sarebbe stata presto assalita se non fosse stato per Michel che, non so quanto per sua decisione o per un caso, la salvò. Probabilmente fu scambiato per uno della sicurezza, per questo le persone rimasero immobili, indecise sul da farsi. Salii anch’io sul palco seguito da Emile e insieme aiutammo la ragazza a rialzarsi. Gli assatanati tornarono alla carica. Presi subito una sedia, utilizzata per la coreografia dello spettacolo, e cominciai a farla girare sopra la mia testa urlando frasi sconnesse verso quelli. Sinceramente, Carl, non ricordo bene cosa dissi ma ebbe il suo effetto. Gli indiavolati si allontanarono e cercammo, con la povera ragazza appoggiata sulle nostre spalle, di raggiungere i camerini, dove si erano barricate le altre compagne. Emile prese coraggio e si mise tra noi e l’ammasso di gente per creare un varco. Per fortuna l’agonia finì, entrammo negli spazi occupati dalla compagnia lasciandoci dietro il caos. Le ragazze ci vennero incontro incredule perché nella confusione non si erano accorte di aver perso per strada una di loro. Stavano già portando fuori i vestiti e gli attrezzi utilizzati per la scena e andar via di corsa per evitare un altro assalto. Stendemmo la ballerina su una poltrona e visto che le altre si stavano già prendendo cura di lei decidemmo di andarcene. Un signore alto e ben vestito si accorse di noi e ci bloccò, "Siete stati molto gentili! Grazie!", e continuò "Siete invitati al party che si terrà all’hôtel du President per festeggiare l’evento." Ci guardammo in faccia senza capire bene cosa intendesse festeggiare dopo quello che era successo. "Va bene! Veniamo volentieri!", diedi risposta per tutti e tre. "Allora salite sull’autobus con gli altri, che si parte" "Ancora un autobus?", sussurrai nell’orecchio di Michel. "Ci siamo scordati dei miei amici", disse Emile. "Hai ragione, ma non possiamo perderci quest'occasione", risposi. "E’ vero, Emile", aggiunse Michel. "Tutti sopra!", urlò l’uomo alto. Salirono tutti: le ballerine, l’orchestra, l’uomo elegante, la ragazza che avevamo appena salvato. L’uomo alla guida del mezzo stava per chiudere le portiere, ma Emile si decise. "Sì, andiamo pure noi" Beh, almeno la prima parte del piano si stava realizzando, visto che eravamo riusciti ad allontanare Emile dai suoi amici dell’università. Nessuno di noi s'immaginava cosa sarebbe successo dopo. Stavamo in un autobus insieme con un intero corpo di ballo ungherese! Da non crederci, Carl. Salimmo e l’autobus partì, ma stavolta lentamente. Non sapevo dove potesse essere l’hôtel, ma siccome si chiamava "President", si trovava, pensai, in un posto chic della città. Nel bus regnava un’atmosfera allegra, tutti ridevano e si congratulavano uno con l’altro per la riuscita dello spettacolo. Un suonatore di chitarra stringeva a sé una ballerina, un violinista chiacchierava animatamente con il direttore dell’orchestra, Michel passava senza distinzione da un primo fiato ad una percussione fino alla più sensuale tra le danzatrici del famoso corpo di ballo ungherese. Sembrava di stare ad una festa, tutti si conoscevano, tutti si abbracciavano e si scambiavano baci sulla bocca. Non ci mettemmo molto ad arrivare al President. Il bus entrò con una sola manovra nell’atrio esterno dell’hôtel e si aprì la porta. Michel, Emile ed io scendemmo per primi, seguiti dal resto della compagnia, poiché occupavamo i posti immediatamente dietro al sedile dell’autista. Un gruppo d’estimatori curiosi si avvicinarono a noi, immaginando fossimo, che so, i produttori o i manager della compagnia ed iniziarono a farci i complimenti per lo spettacolo. Michel ed io c'eravamo subito immedesimati nel personaggio: firmavamo autografi, rilasciavamo interviste e ci facevamo fotografare abbracciati ad una delle tante ballerine. Lui pareva essere un importante uomo d’affari, col suo lungo impermeabile nero ed io uno di quegli scenografi di teatro un po’ stravaganti che si atteggiano con pose effeminate. L’intera compagnia entrò nell’elegantissima hall dell’hôtel, affollata di persone. Le ballerine salirono nelle loro stanze per cambiarsi d’abito e rilassarsi dopo tanto "movimento" e noi ci unimmo agli ospiti, i quali si erano spostati nella grande sala, allestita per festeggiare la riuscita dello spettacolo. "Con chi ho il piacere di parlare?", mi fece uno che mi si avvicinò intimorito, ma intenzionato a conoscermi a tutti i costi. "Mauriac! E voi?" "Io…io…beh, sono stato invitato dal titolare del cabaret, anche se… non sono dell’ambiente." "In effetti, non vi ho mai visto!", risposi con voce femminile per entrare meglio nel personaggio. "Piacere, Lulu!", intervenne da dietro Michel con tono esageratamente frivolo. Lo guardai in faccia, aveva cambiato espressione, teneva la bocca chiusa con le labbra all’infuori. Non ce la feci. Sbottai a ridere. E lui serio, "Perché ridi, eppure una volta ti faceva impazzire la mia bocca, Mauriac?" L’uomo davanti a noi rimase impalato, senza dire una parola. "E lei cos’ha? Andiamo Mauriac si vede che quest’uomo non ha gli stessi nostri gusti." Mi dovetti allontanare di corsa perché stavo morendo dal ridere e mi diressi verso il buffet offerto dall’hôtel. Al barman ordinai, per Michel e per me, "due bicchieri di rum, del migliore per favore" "Dov’è Emile?" "Non lo so, quando siamo entrati l’ho perso di vista." "Starà ad importunare qualcuno, come facciamo noi." "Dai, non scherzare! Lo sai che quello è come un bambino. Non è abituato a queste situazioni ", e aggiunsi, "non vorrei che si fosse cacciato nei guai." Intanto le persone che si trovavano lì, apposta per conoscere le ballerine, iniziarono ad agitarsi. In cima alla grande scalinata, che dalle stanze dell’hôtel scendeva fino all'immensa sala in cui eravamo, si affacciò l’uomo alto con il vestito elegante. La sola vista del personaggio animò gli invitati e costrinse l’intera sala ad un lungo applauso. "Grazie a tutti per essere qui, stasera!", indugiò un attimo e ripartì l’applauso, "e un ringraziamento particolare per l’accoglienza che voi tutti, abitanti di Caebourg, ci avete fatto", altro applauso, " se sono qui tra voi, in questo stupendo luogo è perché sono orgoglioso di rappresentare il meraviglioso corpo di ballo che avete ammirato questa sera al chevres danceant", applauso e pausa. "E volutamente parlo di corpo di ballo perché le ragazze, che ora scenderanno fra di voi, sono l’orgoglio della nostra amata nazione: l’Ungheria!", applauso, "ma ora basta perder tempo, perché loro sono qui! Ho l’onore di presentarvi, direttamente da Budapest, le incantevoli e seducenti "libellule", e scattò l’applauso più lungo del mondo! Il frastuono prodotto dal battito delle mani stava per sfondare i cristalli dei lampadari e i vetri delle finestre. L’uomo iniziò a scendere la lunga scala, seguito dalle sue ragazze, tutte vestite allo stesso modo, con magliette attillatissime e gonne rosse a mezza coscia. Passò la prima, la seconda e via via tutte le altre. Scese anche la ragazza che avevamo salvato e chi vidi alla fine della sfilata? Proprio lui, Emile. Completamente sbronzo. Affrontava le scale credendo di essere, anche lui, una bellissima ballerina. Si era tirato su i pantaloni e mostrava le gambe magre e pelose: che spettacolo! "Noi prima scherzavamo, ma quello fa sul serio! E’ preoccupante, Piffa!" Arrivò all’ultimo gradino e s’inchinò al pubblico che per fortuna non si era accorto minimamente d’Emile, poiché tutti erano interessati alle ballerine. "Emile! Sei ubriaco. Dove sei stato?" "Che dolcezza. Che eleganza." "Che cosa stai dicendo?" "La ballerina, no!" "E noi che ci preoccupavamo di dove fosse andato, Piffa. Quello se ne stava chissà dove a divertirsi con le ungheresi", disse Michel. "Che avete capito! Il tipo elegante mi ha chiesto di seguirlo nella sua stanza", e poi "non sai i ringraziamenti! Mi ha anche chiesto se desiderassi conoscere qualche ragazza" "E tu?" "Gli ho detto che volevo parlare con la ballerina che abbiamo salvato, poi ha iniziato ad offrirmi un drink dopo l’altro" "Ci hai parlato con lei?" "No! So soltanto che si chiama Svetlanka. Vi prego aiutatemi a conoscerla" "Beh, vai da lei visto che ci deve comunque un favore e ci parli" Michel la faceva facile, ma Emile era una frana con le donne. Presi Michel da una parte e gli sussurrai ad un orecchio, "Ormai lo scherzo non riusciamo più a realizzarlo, quindi aiutiamolo almeno a conoscere ‘sta benedetta Svetlanka, no?" Michel fece segno di sì con la testa, appoggiammo Emile su una poltrona ed andai a cercare la ragazza. Era vicina al buffet, circondata da quattro o cinque signori, la ballerina, e rideva così sguaiatamente da attirare l’attenzione dell’intera sala. Gli uomini la corteggiavano senza mezzi termini e lei li osservava mentre si proponevano. Poi uno di loro l’abbracciò tentando di portarla lontano dagli altri, mentre un altro la afferrò per un braccio tirandola con forza verso di lui. Emile si alzò dal divano e rimase in piedi impietrito. Lei si accorse di me, si liberò dalla morsa prepotente dei due e girò lo sguardo nella mia direzione. Era il momento di agire. "Signorina Svetlanka volevo complimentarmi per lo spettacolo" Lei si avvicinò e mi rispose con una stretta di mano. Dimenticai subito le pose femminili e l’interpretazione del famoso scenografo effeminato! Presi la sua mano, dolcemente ma con decisione, e la baciai. Si fece il vuoto attorno a noi. "Si sente meglio?" Non parlava la mia lingua, ma solo un po’ di francese e così mi rispose, "Veux-tu, ce nuit, baiser?" Ci avvicinammo ad un tavolino e ci sedemmo insieme. Svetlanka mi guardava dritto negli occhi, con un gomito appoggiato sul tavolo e la mano sulla spalla. Vestito rosso, maniche lunghe, colletto bianco, enorme cappello variopinto, grandi labbra rosso fuoco, capelli neri. Aspettava una risposta, ma mi precedette per non darmi scampo. "Dans la chambre numéro 11 entre dix minutes!", mi bisbigliò nell’orecchio e si allontanò con la stessa sicurezza con cui se era seduta di fronte a me. Che disastro! Non sapevo cosa fare. La ballerina non era niente male, ma Emile? Raggiunsi i miei amici ed Emile, che sembrava si fosse ripreso dalla sbornia, mi chiese "Allora, che ti ha detto?" Rimasi per un attimo in silenzio e così diedi una risposta senza pensarci troppo. "Ti aspetta nella stanza numero undici fra dieci minuti" Michel, che fra tutti era quello che mi conosceva meglio, aveva già capito. Era dotato dello stesso istinto che ha una madre con i suoi figli, solo che stavolta non rideva e neanche era turbato. "Mi ci vuole qualcosa da bere" Emile era fuori di sé, senza rendersi ancora conto di quello che sarebbe successo. Si allontanò in direzione del buffet e mi lasciò solo con Michel. "E se quella non ci sta?" "Ma chi la ballerina? Lei non vede l’ora di portarsi qualcuno a letto. Non hai notato come si comportava in mezzo a quegli uomini! Stava per sceglierne uno come si fa con un cofanetto di cioccolatini tutti uguali." "Allora perché ha scelto te?" "Per ringraziarmi, no! Siccome anche Emile l’ha salvata, è lo stesso se ringrazia lui al posto mio" "Sì, forse. Basta che si comporta bene. Non ne deve aver viste molte di donne" "Dai, andiamo a berci qualcosa con Emile." Arrivammo al buffet, ma quello se n'era già andato. Voleva essere puntuale al suo primo appuntamento. Bevemmo il solito ed uscimmo all’aperto, in uno dei due balconi che si affacciavano dalla sala, rivolti verso la strada. Eravamo nella zona settentrionale della città, era splendido! Dalla sala arrivavano alle nostre orecchie le parole di una vecchia canzone, che faceva, all’incirca, così:   A Caebourg eravamo in un piccolo caffè Si potevano ascoltare le melodie delle chitarre Oh, dolcezza, era il Paradiso…   Successe l’impossibile! Le dolci sonorità del brano vennero sopraffatte dalle urla disperate di una donna. Guardai dritto in faccia Michel e non ci fu bisogno di parlare, perché intuimmo subito di chi potessero essere quegli strilli. Rientrammo immediatamente nella sala che si era del tutto svuotata. Gli invitati, le ballerine, i barman e chissà chi altro si diressero, nel caos totale, verso la stanza da cui provenivano le urla. "Dai Piffa! Cerchiamo di arrivare prima di loro", mi disse Michel senza far immaginare nella voce la minima esitazione. C'infilammo carponi tra le gambe impazzite della folla, non ci si capiva più niente, pensavo soltanto "stavolta non ce la faccio, stavolta non ce la faccio". Raggiunsi l’apice delle scale, senza sapere bene come e cominciai a chiamare. "Emile! Emile!" Mi accorsi subito che sarebbe stato inutile sbirciare nelle stanze, perché bastava seguire le traiettorie immaginarie degli sguardi delle altre persone per capire da dove provenissero quelle urla. Tutti guardavano nella medesima direzione. Erano gli uomini incontrati al cabaret, con le stesse giacche eleganti, ma senza le solite mogli. Superai tutti e cosa vidi? Un uomo solo, nudo e sbronzo. Era Emile. Rideva a crepapelle, indicando con l’autorità di un inquisitore coloro che gli stavano davanti e allo stesso tempo balzava come un ossesso sul letto a due piazze, sfruttando il movimento delle molle. Saltava a piedi uniti e urlava frasi sconnesse. Le persone lo osservavano senza intervenire…Immaginati la scena, Carl. La ballerina, invece, si era rinchiusa nella toilette della suite e con una voce così stridente da riuscire a coprire le parole esagerate di lui, diceva "C’est fou, c’est fou!", cercando di attirare l’attenzione per essere salvata da quella situazione imbarazzante. Ero bloccato, non riuscivo a muovermi, stavo lì con gli altri, anch’essi immobili un pò perché curiosi di seguire lo spettacolo e un pò perché, sognando d’essere loro al posto d’Emile, aspettavano un colpo di scena. E il colpo di scena ci fu! Emile pareva aver occupato il posto delle ballerine sul palco. Si dimenava con l’agilità di una spogliarellista, di quelle che si esibiscono nei loschi e luridi locali di Rue du fleuve e mostrava senza imbarazzo i genitali sobbalzanti per l’effetto del molleggiamento. Intervenni! Lo raggiunsi e lo presi sulle mie spalle, portandolo fuori dalla stanza. Arrivò anche Michel. "Fate passare! Per favore!", e ancora "fate largo, signori, ha bisogno di aria, deve respirare. Ha perso il senno della ragione, gli capita spesso!", e controvoglia si aprì un varco che ci permise di scendere le scale e di raggiungere l’uscita dell’hôtel. Appoggiai il mio impermeabile sul corpo nudo di Emile e lo trascinai fuori della hall, poiché lui non aveva alcun'intenzione di lasciare il President. "Devo a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e ringraziarlo, ho detto a-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e", scandì Emile facendo riferimento, presumo, all’uomo che ci aveva invitato. Anzi, una volta lasciata dietro di noi l’entrata dell’hôtel ne fui certo. L’uomo alto con il vestito elegante, attorniato dai suoi due guardaspalle, uscì anche lui e prese a correre, visibilmente irritato, verso di noi. Non c’era tempo da perdere. Ripresi Emile sulla mia schiena e scappai seguito da Michel il quale, abile come sempre, si piazzò a braccia aperte davanti ai nostri inseguitori e riuscì a bloccarli con una raffica di parole che solo lui poteva riuscire a sputare fuori della bocca, neanche fosse un cantante di scat. Mentre Emile continuava a gridare "eccolo, eccolo! Aspetta voglio salutarlo!", Michel chiuse il discorso con un virtuosismo e ce ne andammo. Eravamo troppo rilassati per voltarci…       4 E tu cosa fai? Domandai alla margherita Che saliva dritta dalla fertile terra Nutrita dai macabri resti Di una remota sconfitta E che così replicò: Do la forza, sussurrò la margherita, E il giaciglio alla libellula Che si presenta frenetica una mattina d’estate In attesa di una messianica visione E con estrema delicatezza Appoggia il candido corpo E si riposa più che può Sul suo fiore preferito. Fin quando non vede lei, La sua unica ragione di vivere Di una sola giornata d’esistenza. Un’intera mattina per corteggiarla E un pomeriggio per amarla Quando il calore del sole cede al fresco vento Che la sera s’incanala tra le strette valli E teneramente accompagna la donna amata A depositare il frutto dell’amore Sulle ferme e paludose acque Di un martoriato lago. E con lo stesso candore avvolge nelle sue bianche ali Il corpo ormai esanime di lei Per appoggiarlo sul loro unico fiore Per un ultimo abbraccio d’amore … effimero…   Era arrivato il momento di metterci in viaggio…Michel non diede altre soluzioni alla mia scelta di portarlo via da Caebourg. Il treno delle 12.30 si trovava già sul binario numero uno della Gare Centrale, pronto in perfetto orario a riportarci da dove eravamo partiti, per vivere un’esperienza durata poco più di due mesi. Senza rimpianti lasciai l’appartamento, sicuro del fatto che tornare in Ticino avrebbe drasticamente allontanato Michel dal pensiero folle che lo ossessionava. La splendida e pazza gioia della sera prima, purtroppo, non era riuscita a distrarlo dal triste e malinconico desiderio d’amore. Dopo l’explouat al President accompagnammo a casa Emile, non più in grado di badare a se stesso. Percorremmo a piedi tutto il tratto di strada che dall’hôtel passa per il centro di Caebourg e che ci portò fin sotto all’appartamento di Emile: più di cinque chilometri. L’eccitazione per l’evolversi della serata ci fece dimenticare la stanchezza e il dolore alle gambe. Appoggiammo Emile sul letto, coprimmo il corpo nudo con una coperta di lana e ce ne tornammo a casa. E’ necessaria una grande complicità per non far terminare una nottata come quella. Michel ed io restammo seduti sul pavimento della stanza da letto, uno di fronte all’altro, a parlare e ad esprimere liberamente le nostre idee, i pensieri più reconditi, le speranze, le passioni, i sentimenti…con vera sincerità. La notte fu quieta e sognante per entrambi… …ma così non fu la mattina, che esordì fredda e ventosa più del solito. "Piffa! Piffa! Sei sveglio?", e ancora "Piffa! Ci sei?" "Sì, Michel", risposi con voce roca. "Devo chiederti scusa, amico mio", passarono alcuni istanti. Restai in silenzio aspettando il seguito. "Ricordi al museo, quando ti parlavo di Françoise e me?" "Sì, certamente" "Non ti ho detto la verità. Ti ho mentito. Non è vero che ci siamo baciati e che abbiamo fatto l’amore insieme!" "Aspetta un attimo! E Françoise allora chi è?" "Tutto il resto è vero; è vero che ci siamo conosciuti al café des courses e che ci siamo frequentati…fino al giorno dell’appuntamento davanti alla Cathédrale." "Continua, Michel." "Decisi di incontrarla per rivelarle il mio amore. Giunsi per primo, con un’ora d’anticipo. Il resto lo sai. Venne e non persi tempo a chiederle se volesse essere la mia donna. Mi avvicinai a lei per baciarla…" "E lei ha rifiutato!", conclusi io. "E se n’è andata, dicendo di non farmi più vedere, perché avevo tradito la nostra amicizia. Capisci! Ti ho mentito, ti ho mentito…e non ho avuto il coraggio di dirtelo perché ho creduto veramente dentro di me di aver fatto l’amore con lei…l’ho immaginato sulla riva del fiume, su di un’erba alta e morbida, tra fiori coloratissimi che rendevano il suo corpo naturalmente profumato...ho creduto, ho sognato e ipotizzato una relazione impossibile." Non piangeva, Michel, ma sarebbe stato meglio, perché aveva uno sguardo irreale e lontano miglia e miglia da quello spensierato e sereno del giorno prima. Così non pensai! Mi alzai dal letto, mi guardai in giro per capire quante cose ci fossero da portar via ed esclamai con un tono di voce che non ammetteva risposte negative. "Torniamo da dove siamo venuti!", e per non rendere la decisione troppo dispotica, aggiunsi, "Due settimane a casa per respirare un po’ d’aria fresca e poi torniamo a Caebourg, va bene?" Michel fece segno di sì con la testa ed iniziai disordinatamente a riempire le valigie con gli oggetti che ritenevo utili per il viaggio e per l’eventuale alloggio in Ticino. Nel frattempo che Michel faceva lo stesso con le sue cose, scesi dall’affittacamere, ancora in pigiama, e la avvertii del nostro momentaneo ritorno a casa. Aggiunsi una mancia per evitare che ci sbattesse fuori, una volta tornati in città, e rientrai nell’appartamento per prendere Michel e buttarlo fuori una volta per tutte da quella situazione. Infilai il cappotto, appoggiai il cappello sulla testa, presi le valigie in mano ed incastrai i quadri sotto l’ascella. Alcune tele me le ero portate dal Ticino con l’intento di venderle nei momenti difficili, altre le avevo soltanto abbozzate durante il soggiorno a Caebourg. Le presi tutte con l’intenzione di venderle al tipo sulla Grand Rue. Non me ne fregava niente. "Le porto via, se quello non le vuole le butto nella spazzatura", dissi tra me e me. Come sempre percorremmo il tratto di strada che unisce rue des libraires e la Grand Rue a piedi, mestamente come mai c’era capitato di fare prima. Raggiungemmo lo stesso la galleria e con disprezzo abbandonammo lì i pastelli per meno di duecento franchi. Dodici e trenta. Partiamo. Il treno sbuffò con rabbia, inserì la marcia ed iniziò ad uscire dalla stazione, senza voltarsi indietro. Lentamente, ma desideroso di raggiungere il prima possibile il binario unico, che lo avrebbe portato dritto a destinazione, lasciò dietro di se la banchina del primo binario. Il motore incazzato della locomotiva fu come un pugno al cuore per entrambi. Cercai lo stesso di cogliere l’ebbrezza di un temporale, ma rimasi solo! Volevo spronarlo a reagire, volevo gioire nel toccarlo, nel sospingerlo, nell’ascoltare le frasi senza senso, nell’annusare il suo odore, anche se sgradevole… Stavolta rimasi deluso dallo sguardo lontanissimo di Michel. La periferia nord di Caebourg mostrava la geometrica irregolarità del suo tessuto viario, il grigiore dei palazzi e le interminabili sfilze di gru, distruttrici degli antichi e suggestivi equilibri, pronte ad abbattere la storia dei decadenti teatri comunali, delle osterie, dei mercati rionali. Me ne stavo con gli occhi fissi al finestrino ad osservare i treni che incrociavamo, diretti alla stazione centrale… …proprio quelli che me lo stavano portando via. Lui sedeva accanto a me, ma se ne stava da solo come quando lasci l’amore. Non c’era alcun sorriso penetrabile da ricambiare, quel suo sguardo dell’ultimo minuto, che dovrebbe dire tante cose, ma che è solo una maschera contorta da un vacuo sorriso misterioso, nascosto… Il treno attraversò le rare e umide campagne svizzere, scavalcò sbuffante le buie vette alpine e alla fine ce la fece…arrivò a destinazione. E’ giusto, secondo te Carl, rovinarsi la vita per una scelta sbagliata? Costringere se stessi ad abbandonare le certezze che ci siamo costruiti pian piano durante la vita? Eravamo tornati alle nostre vere origini, per usare una frase cara ad Emile. Già, neanche feci in tempo a salutarlo, Emile. Chissà cosa avrà pensato del suo guru! Al posto nostro lui sarebbe sceso dal treno, avrebbe attraversato la strada, che separa la stazione ferroviaria dal parapetto affacciato sul maestoso panorama, per godere a pieni polmoni dell’odore forte, muschioso, carico di una sensazionale vigoria, che può appartenere soltanto a questa terra. Alla mia terra… Venne buio e proposi a Michel di passare la notte nella locanda di Gustav. Scendemmo a piedi i gradini che dall’alto della stazione portano fino al lungolago, passando affianco alla teleferica. Che ricordi qui! "Ti ricordi, Michel, quando rubammo nella pasticceria della signora Giulia e scappammo su per le scale per andarci a mangiare i dolci nella sagrestia del duomo?", mi sembrava di rivivere la situazione e di ricordare quel periodo spensierato, con gioia. "E quante volte avremmo tirato le castagne raccolte dagli alberi alla gente che passava qui, nascosti tra le piante e quante volte siamo fuggiti senza farci vedere e quante volte ci hanno rincorso fin giù all’imbarcadero…" Respiri, sorrisi, lacrime, malinconia… "Spogliati!", dissi una volta proprio qui, mentre mi avvicinavo a lei ventre nudo, cosce calde, pose erotiche contorte. Speravo di non incontrarla più, quindi che aspettare? E l’accademia, forse quel sedici giugno millenovecento…non fu soltanto un sogno. A mezzogiorno in punto, con gli occhi sbarrati e la gola ferma all’incrocio tra la stazione dei treni e il capolinea del bus. Non camminavo, aspettavo. Lei non arrivò subito, ma non me ne meravigliai. Risveglio, in pochi secondi. "Non sto più con Veronica", le dissi mentendo, poi precisai, "E’ cambiato, tutto risolto", la sua reazione fu di stupore. Non mi baciò, fece segno di avvicinarmi e cominciò ad accarezzarmi dolcemente, senza dir nulla. Fu proprio in quel preciso istante che pensai "l’uomo più felice del mondo? Quello sono io", lei era lì. Candidamente, col tono fanciullesco che la distingueva da tutte le altre, mi disse "prendiamo tempo!", risposi "pas de problem" e seguirono le esagerazioni post-vacanza al mare, Nepal sulle dune bianche, Thailandia per uomini? "Locanda Gustav ed Angela, eccola là, sempre la stessa", esclamò Michel sorridendo, finalmente. Aprii la porta, entrai nell’atrio seguito da lui ed appoggiai le valigie a terra. Non ci fu bisogno di dir nulla. Conoscevo il padrone perché mio padre in Ticino era rispettato e amato da tutti. E ancor più Michel che qui veniva mandato spesso a lavorare, l’estate, dalla famiglia al termine dell’anno scolastico. Gustav era un tipo burbero, ma di solito cordiale con noi, un pò per rispetto alla famiglia e un pò per abitudine nel vederci spesso da lui a bere grappa. Il tipo chiamò la moglie con un urlo che risuonò per tutta la locanda. La moglie sopraggiunse di corsa dal sottoscala e ci diede un’occhiata che non dimenticherò mai. Con voce schifata disse, "Mi dispiace, ma siamo al completo", senza darci neanche la possibilità di controbattere. Michel ci provò lo stesso, "Signora, vi ricordate? Lui è il Piffa e io sono il figlio di Fausto, il medico!" Ma lei non lo fece finire, "Sì, sì lo vedo. Mi dispiace ma non ci sono stanze libere. Arrivederci!", e ci aprì la porta per sbatterci fuori. "Da non crederci! Buttati fuori da casa nostra", esclamai mentre raccoglievo le valigie. "Questa non è più la nostra dimora, Piffa!" "Perché?" "Ancora non l’hai capito? Hai visto la faccia della moglie? Ci guardava come se fossimo delle belve esotiche", e non si fermò, "la verità è che non ci vogliono, perché noi non siamo più come loro." "Adesso chiamo mio padre e vedrai se non ci trova una stanza libera alla locanda" "Dai, lascia stare. E’ meglio che per questa notte dormiamo al parco e domani mattina ce ne torniamo a casa nostra." "Va bene, Michel. Come vuoi", risposi perplesso. Non ci stavo capendo niente, Carl. Che cosa avevamo fatto di male per essere buttati fuori in questo modo? Non ci hanno dato neanche la possibilità di chiarirci. Era assurdo per il mio modo di vedere, ma non per quello di Michel. Scendemmo fino al lungolago, passammo davanti alla sfilza di banche e gioiellerie chiuse, ma ancora con le vetrine ben illuminate, non si sa mai magari la notte ci passa qualcuno, vede un orologio e domani mattina viene a comprarselo. Ci trovammo una nicchia per passare la notte al parco. Faceva freddo, così ci stringemmo l’un l’altro per produrre calore con i nostri corpi. Michel si addormentò subito, io, invece, restai sveglio fino all’indomani. Capii tutto quando la mattina dopo andai al bar più vicino per comprare la colazione. "Caffè Rinnovamento" fu la scritta che non potei non notare alta sulla mia testa e su quella dei passanti, frettolosi più che mai. Tutti erano rigidamente allineati e si muovevano ben composti dentro i loro eleganti abiti scuri. Entrai nel locale e subito mi venne di tirare fuori la macchina fotografica per immortalarli da un angolo nascosto, che mi pareva perfetto a mostrare quell’incessante flusso di gambe, di corpi rigidi ed impalati. Un bel pastello su carta. In quel momento capii. Stavo per spingere il pulsante di scatto della vecchia reflex meccanica, regalatami da mio padre per il diciottesimo compleanno, quando mi si avvicinò un ragazzo, raffinatissimo nel suo bel vestito nero, il quale imitò, con il dito rivolto verso di me, il segno dello scatto fotografico. Mi scrutò con lo stesso disprezzo della locandiera, si mise a ridere e se n’andò, presumo insieme ai colleghi di lavoro, dato che sulla cravatta bianca di tutti vi era ricamata la scritta "New Bank…" Tornai di corsa da Michel e dimenticai di prendere la colazione. Ero fuori di me, non potevo accettare che per colpa di basette disordinate, cappelli eccentrici e abiti stropicciati eravamo considerati estranei dai nostri stessi concittadini. Mi sforzai di far vedere a Michel che non me ne importava niente. Non ci riuscii. "’Sti maledetti figli di puttana!", sbraitai rivolto a lui e alle persone che, passando davanti a noi, ci guardavano con bizzarra curiosità. "L’hai capito, finalmente", gridò. "Non ci posso credere! Stavo al bar qui di fronte…", Michel mi bloccò e fece segno di seguirlo. All’improvviso si mise a correre e raggiunse un tipo distinto e ben vestito, che se ne stava nascosto dietro ad un albero. Il signore non fece in tempo ad allontanarsi e Michel lo freddò così. "Ciao! Come te la passi? Quanto tempo che non ci si vede, vecchio mio!" L’uomo cercò di reagire, ma non gli diedi scampo e lo bloccai, intervenendo io ad alta voce, "E tua moglie ancora se la fa con il panettiere?" "Dai non prendertela, tu passi tutta la giornata al canvetto e poi ti stupisci se tua moglie va a letto con il PANETTIERE!", ribadì Michel scandendo perfettamente l’ultima parola. L’uomo divenne rosso dalla vergogna, mentre con la coda dell’occhio si rese conto della folla, che si era formata nelle immediate vicinanze. Sfogammo, infine, la nostra rabbia voltandogli le spalle, benché sono sicuro che Michel avesse la stessa mia voglia di allungargli un pugno in faccia. Era il momento giusto per ritornare dai rispettivi genitori. Raccogliemmo le valigie e ci abbracciammo a lungo, quasi non dovessimo più incontrarci...   Quando la domestica aprì la porta di casa capii che mi ero sbagliato anche sul fatto che pensavo di essere un membro effettivo della mia famiglia. Lei, senza dubbio, provò un certo imbarazzo nel guardarmi così vestito. Vedendomi arrivare con il cappotto nero, ormai effettivamente sudicio, i miei capelli arruffati e i larghi pantaloni stropicciati, indossati senza cinta, mi chiese perché fossi rimasto assente così tanto tempo, mio padre, e senza aspettare risposta se ne andò. Si era comportato in quel modo per provocarmi, Carl! Non c’è cosa più crudele di non aver la possibilità di rispondere ad una domanda così banale come quella, ma essenziale quando rientri a casa tua dopo un lungo soggiorno fuori. Mai madre era affaccendata nelle sue usuali mansioni domestiche e mi rivolse la parola con un tono di superficiale condiscendenza. "Ti ho preparato il bagno. Ne avrai bisogno dopo un lungo viaggio", esordì, con in mano un telo bianco e un sapone di Marsiglia. "Ciao, mà!", risposi. "Dove l’hai trovato quel cappotto? E quel cappello? Che orrore! Vai a lavarti; tuo padre vuole parlare con te" Almeno lei si era ricordata del mio sapone preferito, pensai. La casa era rimasta sempre la stessa con il suo caratteristico tetto spiovente, appoggiato sopra ad un corpo rifinito e ricamato da mille e mille fiorellini, nonostante il freddo, allineati ordinatamente sui balconi di legno scuro. Neanche la disposizione interna dei mobili era stata modificata, tanto i miei genitori tenessero alla reminiscenza delle tradizioni familiari. Avevamo ancora lo scrittoio del nonno morto dieci anni fa, la macchina per cucire ereditata da una lontana zia tedesca, le spalliere dei letti, regalo di chissà quale matrimonio. La mia stanza occupava l’intera mansarda ed era collegata al piano sottostante tramite una scala a chiocciola di ferro. Era il mio rifugio dalla realtà, il posto nel quale mi chiudevo da bambino e dove costruii pian piano la mia indole, sensibile alla nostalgia e propensa alla fantasticheria malinconica. Sognavo, Carl, cercando di allontanarmi dall’esatta sembianza di ciò che appariva attorno a me, soffrivo e gioivo… Notai un cambiamento. Le tapparelle. Erano tutte chiuse. E meditai. Sembravano voler preservare la casa da tutto ciò che potesse distruggere la sua unicità, l'ossessione di riservatezza. E quelle tapparelle rimasero chiuse per tutto il tempo in cui alloggiai lì. Mi lavai, portai i panni sporchi alla domestica e scesi nella sala da pranzo dove mio padre e mia madre mi aspettavano seduti a tavola. Il pasto era servito nei piatti. Mi accomodai sull’unica sedia rimasta vuota. Sì, perché oltre ai miei genitori c’erano anche un vecchio amico di famiglia e la sorella di mio padre. Il corpo dei giudici al completo. Salutai con un "buongiorno a tutti" generale e augurai un "buon appetito" per non esordire a tavola in silenzio. Gli invitati risposero all’unisono e iniziarono a mangiare. Il primo ad incominciare fu l’amico di mio padre, un barbuto e distinto signore che era solito presentarsi a casa nostra, insieme alla moglie e ai suoi due figli, durante le ricorrenze più importanti, che so, Natale, Pasqua e feste nazionali. "Allora, come ti sei trovato a Caebourg?" "Meravigliosamente, signore! Un posto fantastico, le consiglio un giorno di portarci la sua famiglia per una vacanza", risposi. "Da giovane ci sono stato pure io, sai! Bei tempi quelli! Ero partito per frequentare l’università. A Caebourg c’è una delle facoltà di economia tra le più quotate d’Europa." "Davvero?", ribattei ironico. "Ora sei tornato per ristabilirti qui, vero?", s'intromise mia zia. "Non ho ancora deciso, sinceramente sono venuto soltanto per aiutare un amico" "Ma chi quel Michel là?", disse mio padre con tono serio. "Sì, ha avuto una delusione d’amore e ho deciso di riportarlo in Ticino per farlo riprendere", risposi in tutta sincerità. "Quindi vuoi tornare in città?", esclamò mia madre preoccupata. "Potrei fermarmi un mese e ripartire, visto che sono andato a Caebourg con uno scopo ben preciso!" "E quale sarebbe?", chiese mio padre. "Lo sai benissimo, pà! Sono andato via per trovare un posto dove liberare la mia ispirazione pittorica", ribattei senza mezzi termini. "Beh, però il ragazzo ha le idee precise", disse l’amico di famiglia rivolto verso mio padre, facendomi capire che i due si erano messi d’accordo in anticipo per affrontare la situazione. "Aaah…aaah…ma quale ispirazione pittorica, non farmi ridere. Allora dimmi quanti franchi hai portato a casa con la vendita dei tuoi presunti quadri" "Dai, non devi essere così duro con lui. La pittura oggigiorno è un ottimo business", e ancora "hai un contratto con qualche galleria o museo, per caso?", disse l’amico di mio padre con voce altera. "Ancora no, purtroppo! Sono riuscito a vendere qualche tela ad una galleria del centrocittà. Se riesco a dipingere molto questi giorni, una volta tornato a Caebourg potrei esporli in un mercato delle pulci." Le mie parole provocarono il silenzio dell’intera sala. La zia mangiava freneticamente, i miei genitori sprofondarono il volto nel piatto, il loro amico volse gli occhi al soffitto, fissando in realtà un punto non ben distinto. Fu lui, da buon mediatore, a spezzare la quiete. "Vedi, caro ragazzo, è molto importante programmare il proprio futuro su delle basi solide! Mi dispiace dirtelo, ma do ragione a tuo padre quando si preoccupa per l'avvenire nella società del proprio figlio", esclamò toccandosi con le dita la lunga e curata barba. "Hai ragione, per trasferirsi in una città così lontana e diversa dalla realtà ticinese bisogna partire con dei contatti sicuri, almeno per quanto riguarda il lavoro", aggiunse mia zia rivolta a questo. Poi diresse lo sguardo a me, dopo aver dato una fugace occhiata a mio padre, quasi con lo scopo di far capire al capofamiglia le proprie buone intenzioni e, certa di aver raggiunto un ruolo preponderante nella vicenda della mia vita, si azzardò a dire, "Cosa ti aspetti dal futuro?" Questa domanda me l’aspettavo, sperando la pronunciasse mio padre, giacché spettava a lui la parte del padre, professore, padrone. Risposi con estremo sarcasmo. "Io niente e tu, zia, cosa ti aspetti dal futuro?" "Cosa vuoi, io ho passato l’età della formazione! Mi sono diplomata e per amore di mio marito ho donato tutta me stessa alla cura della famiglia. Non me ne pento, sai?", concluse sconfitta dalla mia dura reazione. "La zia voleva ricordarti che sei giovane e dovresti trovare un lavoro stabile per un futuro garantito", disse mia madre per dare valore alle precedenti parole. "Voi non volete capire. Io non voglio lavorare, magari in banca, per ritrovarmi fra trent’anni, deluso della mia vita e ostaggio di un’esistenza che, a causa dell’abitudine e della stabilità economica, non mi permetterebbe più di trovare una via d’uscita alla monotonia. Io voglio dipingere! Perché questo è il modo di esprimermi e di comunicare con gli altri! E’ con il pennello che voglio realizzare i miei sogni." A questo punto mio padre scattò sulla sedia, dimenticando gli sforzi diplomatici fatti per attutire le sue rigide regole con l’invito dei due moderatori e urlò. "Fuori tutti, lasciatemi solo con mio figlio!" Gli invitati si alzarono senza esitazioni e tolsero il disturbo, seguiti dalle parole accomodanti di mia madre, "qualcuno vuole un digestivo?" Seguì un lungo silenzio fatto di sguardi bassi, dita agitate e ragionamenti su come attaccare l’altro. Ci pensò mio padre a violentare la tregua con un monologo, che all’incirca faceva così: "Quante aspettative ci siamo fatti per il nostro unico figlio. E pensare che avevo pronto per te un futuro sicuro in Ticino. Con le mie conoscenze avrei potuto trovarti un lavoro all’Accademia di Belle Arti. Tu invece che cosa fai? Te ne vai a Caebourg a fare la bella vita, con quel deficiente di Michel e le tue stupide idee di modernità. Fossi partito con l’intenzione di frequentare l’università o con una prospettiva seria di trovare lavoro a Caebourg, avrei anche accettato un tuo momentaneo trasferimento in città. Invece ti presenti qui vestito di stracci quasi fossi un mendicante. Dove hai lasciato l’educazione che tua madre ed io ti abbiamo dato, cercando di indirizzarti verso una strada ben precisa? A cosa è servito mandarti al collegio? Lo sai chi mi ha telefonato questa mattina, prima che tu arrivassi? Gustav, il padrone della locanda. Era sconvolto. Mi ha detto che ti sei presentato con Michel per chiedere una stanza e si è vergognato a farti entrare. Dio mio che disonore! Mio figlio, appartenente ad una famiglia rispettata ed onorata da tutti in Ticino, che si mostra come un barbone forestiero. Non t'importa cosa dice la gente? Non t'interessa sapere quanto soffre tua madre di questa condotta?" Non lo potevo accettare. Persino la mamma era riuscito a metterci dentro. Così decisi di non rispondere alle assurde accuse di mio padre e, comportandomi proprio come lui sperava che facessi, uscii dalla sala da pranzo a testa bassa, in silenzio. Non fu una sconfitta, né una ritirata. Era il mio modo di reagire alle sue barbare imposizioni. Per educazione mi affacciai alla porta della cucina e salutai tutti gli invitati, uno per uno. Diedi un ultimo sguardo a mia madre e fuggii in mansarda, dove restai rinchiuso ad espiare le colpe. Seguirono lunghissime giornate passate alla finestra, nonostante la pioggia offuscasse la mia vista. Sentivo dentro di me che stava per finire il periodo dei café letterari, delle risate fragorose, degli impulsi esagerati, delle corse con Michel, della febbre del colore, delle prostitute di rue du fleuve, dei cabaret, dei bus impazziti, dei drink alla stazione, delle donne ingioiellate, dei mariti arrapati e delle mogli gelose. Dal giorno del giudizio le parole di mio padre entrarono a far parte della mia vita, senza che io potessi decidere altrimenti. Almeno fin quando stabilii di trovare una soluzione a quella stasi. E’ così che decisi di costruirmi un alphorn. Avevo circa undici anni quando iniziai ad immaginare come si potesse creare un alphorn. Lo ascoltai per la prima volta in montagna e me ne innamorai subito. Il suo suono morbido e allo stesso tempo robusto, proveniente dalla montagna che avevo di fronte, colpì in pieno il mio cuore. Scese giù in picchiata, fece risuonare l’intera vallata sotto i miei piedi e mi raggiunse sul versante opposto una domenica, passata con la famiglia nella baita del nonno. Supplicai mio padre di comprarmene uno, ma lui si fece una grossa risata e mi disse, lo ricordo benissimo, "e come lo suoni un corno lungo quattro metri? Sei ancora troppo piccolo" Fui costretto a documentarmi da solo con l’aiuto di qualche libro sulle tradizioni svizzere, tenuto gelosamente da mia madre nella libreria del salone e con continue e minuziose domande alla maestra, che troppo spesso erano fraintese con un presunto interessamento per gli usi popolari della mia nazione. Non ne ricavai niente. Dovetti desistere. Decisi di immagazzinare le notizie apprese in un angolo della memoria, con la prospettiva di riutilizzarle un giorno, in cui avrei avuto la possibilità reale di costruirlo. Era arrivato il momento giusto per realizzarlo. Innanzi tutto bisognava rimediare un lungo tronco d’abete bianco, caratterizzato da una curvatura ad una delle due estremità, provocata dalla naturale crescita lungo i pendii delle montagne. Di questo n'ero certo! Poi avevo bisogno degli attrezzi giusti per lavorarlo. Questo significava piallarlo, inciderlo, lisciarlo, incollarlo e, infine, rifinirlo. Non mi avvilii e pensai a quello che dissi una volta ad Emile sul fatto che per me la pittura è soltanto uno degli accessori. Il primo che mi è capitato fra le mani. Poteva essere benissimo un altro, per esempio l’incisione del legno. Uscii dalla stanza e scesi in cantina, intenzionato a costruire il mio primo corno delle Alpi. Ero eccitato, perché il mio sogno si stava per avverare. Da tempo mi ero fissato nella mente di realizzare un sistema che potesse salutare, in segno di grande rispetto, il tramontare del sole. Mi affascinava poter costruire uno strumento nato per essere suonato all’aperto, in un ambiente naturale, e così poter apprezzare la sua vera melodia, un pò malinconica e magicamente fusa coi suoni prodotti dalle creature alpine. Mi pareva di essere tornato quello di sempre. Racimolai gli strumenti per lavorare il legno e li appoggiai in giardino. Presi la bicicletta di mio padre con l’intenzione di raggiungere, più in fretta possibile, il fondovalle. La casa dei miei genitori si trovava in cima ad un pendio, allineata e circondata con perfetta armonia urbanistica alle altre abitazioni. Neanche un paese, piuttosto un agglomerato di case con panorama sul lago. Mi venne in mente un vecchio amico, un tale Stocker che lavorava, da sempre, in una falegnameria. Non ci avrei messo più di dieci minuti a raggiungerlo se avessi avuto una bicicletta normale! Invece no, la mia era una di quelle che per frenare non puoi adoperare le mani, devi effettuare un movimento veloce sui pedali con entrambi i piedi. La cosa complicata è che questo scatto, alquanto innaturale, va fatto nel senso opposto all’andatura. Arrivai a destinazione e mi rallegrai di scendere e parcheggiare la bicicletta davanti all'entrata della falegnameria. La notizia del mio ritorno in Ticino, per fortuna, non si era sparsa più di tanto. Stocker mi vide entrare e mi venne subito incontro con evidente contentezza. "Jouet! Già di ritorno?" "Ciao Stocker! Eccomi qui!" "Come te la sei passata a Caebourg? Se non ricordo male sei partito insieme a Michel! Anche lui è tornato?" "Tutto bene, grazie! Sì, anche Michel è rientrato. Adesso sta in casa dai suoi genitori", risposi, finalmente, senza dovermi preoccupare di giustificare le mie scelte. Stocker era un brav’uomo, uno di quelli che si faceva gli affari suoi e viveva del suo passatempo preferito: la lavorazione del legno. In realtà eravamo più dei conoscenti che dei veri amici, sia per la differenza d’età, lui aveva circa cinquant’anni, che a causa dei diversi interessi. Jouet. Erano già passati due giorni dal mio ritorno in Ticino e Stocker fu il primo a chiamarmi così. Una volta tutti mi chiamavano Jouet. Anche i miei genitori. Era il mese di agosto avrò avuto non più di cinque anni giocavo libero nei rari campi coltivati rincorrevo uno dei miei tanti amici d’infanzia tornavo a casa con i pantaloni sporchi di terra e le tasche piene di sassi preziosi. Andai subito al dunque! "Senti, sono passato perché ho bisogno di un legno d’abete bianco! Ce l’hai?" "Ti serve per un alphorn, vero?", rispose, lentamente, come farebbe qualsiasi bravo artigiano, cercando di interpretare la richiesta di un cliente profano del settore, come lo ero io. "Fammi pensare! Tu vuoi un tronco ricurvo, giusto?", esclamò toccandosi i lunghi e bianchi baffi e, così, continuò "Quanto lungo?" "Non so, tre metri e mezzo" "Sì, mi pare di averlo. Aspetta un attimo!" Mi sarebbe piaciuto lavorare in una falegnameria, con il suo potente ed unico profumo di legno misto a colla e vernice. Pensai a come sarebbe stato facile rappresentare la bellezza femminile, incidendo un pezzo di legno, e come si potrebbe ingigantire i seni e rendere reali le valenze sessuali di un corpo. Avrei organizzato delle mostre di sculture lignee e avrei bendato i visitatori, per permettergli di assaporare le opere esposte, con l’odorato ed il tatto del naso. Stocker tornò appena in tempo… Aveva in mano il mio futuro corno. Eccolo qua! Un tronco perfettamente dritto con una delle estremità piegate a gomito, quasi la natura avesse deciso, un giorno, di generare una creatura che potesse suonare insieme alle fronde degli alberi e rispondere ai canti degli uccelli. "Che fortuna, Piffa! Questo pezzo l’avevo scelto io stesso per darlo ad un amico, ma visto che non è mai venuto a prenderselo, lo regalo a te" "Davvero! Non so come ringraziarti", mi sentivo in debito con lui, ma molto felice. Gli esprimessi la mia gratitudine abbracciandolo con calore. Mi riproposi di uscire una sera con lui e tolsi il disturbo, con il mio tronco d’abete bianco in spalla. Inforcai la bicicletta e mi preparai ad affrontare la salita fino a casa. Fu una passeggiata. Ero appagato come quando vendetti l’abbraccio alla galleria sulla Grand Rue. Già sentivo riecheggiare il suono del mio corno tra una vallata e l’altra, tra una sponda e l’altra del lago. Mi sembrava di ricevere la risposta al mio richiamo, udendo la risata di Emile, i sospiri di Lelian le Maudit, le parole di Michel… A proposito, Michel! Dovevo subito avvertirlo della mia decisione di costruire un alphorn. Sapevo cosa mi avrebbe detto, "una delle tue solite follie creative." Avevo un assoluto bisogno del suo incoraggiamento. Tornai a casa, appoggiai il tronco in un angolo riparato del giardino e lo coprii con un panno di cotone. Il sole tramontò e salii nella mia stanza senza rendermi conto di essermi addormentato. L’indomani decisi di andare a cercare il mio migliore amico. Fu così che ripresi la bicicletta, senza farmi influenzare dagli sguardi fulminei lanciati dai miei genitori verso di me durante la colazione. Iniziai a pedalare lasciandomi dietro gli odi, le imposizioni, le aspettative, le intimidazioni con un solo pensiero in testa: riabbracciare Michel. Giunsi in paese, sorpassando sulla mia destra lo stabilimento per la produzione del latte. Diedi un’occhiata dentro all’unica panetteria del paese, casomai incontrassi la moglie del guardone incontrato al parco con Michel e mi fermai in mezzo alla piazza centrale, ancora in sella alla bici, per incrociare qualche conoscente. Rimasi immobile per alcuni minuti, poi appoggiai il mezzo ad un muro deciso ad entrare al canvetto, quando un ragazzo mi fermò sull’uscio. Era un amico di Michel. Non ricordo il nome. Portava una giacca rossa all’ultima moda, un paio di pantaloni perfettamente stirati, tenuti su grazie ad una bella cinta di cuoio e scarpe lucide da cento franchi. Forse, pensai, l’aveva visto. Decisi di fermarmi a parlare con lui, nonostante un certo imbarazzo mi costringesse a non familiarizzare con tutti quelli che mi capitava di riconoscere. "Hai incontrato per caso Michel da queste parti?", dissi con voce garbata, con lo stesso tono di quando si chiede un’indicazione stradale ad uno sconosciuto. "Michel? Ma come, siete tornati insieme e non lo sai?" "Scusa, ma che cosa dovrei sapere?" "Che Michel è ripartito per Caebourg!" Dimenticai la voce accomodante e gli urlai dritto nell’orecchio, "Mi stai prendendo in giro? Non sono dell’umore giusto per sentire queste cazzate. Dove sta Michel?" "E’ partito, se n'è andato! Come devo dirtelo. Ci siamo visti ieri sera proprio qui, al canvetto. Se ne stava seduto da solo ad un tavolo con gli occhi fissi alla bottiglia." "Continua, che ti ha detto?" "Mi sono avvicinato e ha invitato me ed un altro mio amico ad unirci al suo tavolo. Si comportava come se attorno a lui non ci fosse nessuno. Era sicuramente ubriaco. Strano, vero?" "Non me ne importa niente dei tuoi stupidi commenti, dimmi piuttosto che cosa ti ha detto riguardo alla sua partenza." "Veramente non ci ho creduto subito. Continuava a tenere discorsi senza senso riguardo ad una ragazza conosciuta laggiù! Ripeteva che sarebbe partito per rivederla e che si sentiva in colpa per averla lasciata da sola in città." "Magari non se n’è andato. Ci potrebbe aver ripensato." "No, è partito. Ne sono sicuro. Questa mattina mia madre ha incontrato quella di Michel al mercato e le ha detto che il figlio se n'era andato di nuovo. D’altronde cosa ti puoi aspettare da uno come lui?" Non ci pensai su due volte, gli diedi una spinta, leggera per la verità, come per allontanare da me quelle parole e ripresi la bicicletta per distanziarmi il più velocemente possibile. Adesso cosa faccio? Se solo avessi potuto fargli capire che non sarebbe servito a niente tornare da lei, che era inutile convincerla e magari costringerla ad un rapporto di qualsiasi genere, di sesso, d’amore, d’amicizia con lui. Piangevo perché Michel avrebbe incontrato sulla sua strada solo persone con tanti discorsi, ma poche idee da realizzare in un mondo che ormai era fuori di lui, anche se tutto appariva limpido davanti ai suoi occhi: corpi che apparivano, strade fatte di passi falsi, solitudine. La mattina sarebbe uscito dall’appartamento e non sarebbero più bastati momenti felici, millebaci, inverno dei croissant caldi la notte, ideali della musica corale afro-americana odori pungenti del fiume dall’alto…rottura! L’Ironia mi aiutò a raggiungere il distacco totale da tutto ciò. L’Addio! Baite, boschi, fattorie, mucche felici…nessun pensiero preciso… Illusioni e sudori…nessun pensiero preciso… All’ora del crepuscolo forse riuscivo a capire qualcosa, la notte, non si sentiva più alcun rumore…solo con il silenzio. Paura? Puro martirio tra anima e corpo! Rimasi in questo stato di trance per almeno cinque giorni. Soffrivo quando vedevo prevalere le stronzate di questo paese, quando mi accorgevo di tutti i cadaveri ammucchiati uno sull’altro, quando ascoltavo i luridi discorsi dei "saggi" del paese. Uscivo da casa e mi ritrovavo davanti un’intera vallata, carica di risentimento nei miei confronti. Jouet è morto. Mi rinchiudevo nella mansarda, ormai assolutamente separata dal resto della casa e della famiglia, con una sola idea: tornare a Caebourg. Una mattina mia madre salì le scale a chiocciola e bussò alla mia porta. Stavo dormendo. Mi alzai dal letto e le aprii. "C’è una lettera per te!", esclamò impietosa. La presi immediatamente, sicuro fosse un messaggio di Michel. Mi sbagliai! Sulla busta il nome del mittente apparteneva ad un’altra persona: Emile Ferrand. La scartai e, non lo dimenticherò mai, c’era scritto:   "Caro Piffa, avrei voluto, con tutto il cuore, spedirti questa lettera per mille altre ragioni e non per questa, perché devo comunicarti una notizia terribile: Michel è morto! L’ho saputo soltanto ieri sera e ho informato per primo te, che fra tutti sei il suo migliore amico. E’ un'immensa tragedia che ci tocca tutti e ci fa piombare in un'assoluta tristezza. Mi dispiace dirtelo così, senza poterti stringere forte e consolarti, con sincera sofferenza per un vero amico, come lo è stato Michel. Preferirei non dare motivazioni sulle cause della morte, ma giacché prima o poi lo verrai a sapere, preferisco essere io a spiegartele. Si è tolto la vita, sparandosi un colpo di pistola alla testa! Si trovava, a quanto pare, al Café des courses in compagnia di Françoise e, non so per quale maledetta ragione, ha tirato fuori la pistola e ha sparato due proiettili, colpendo prima lei e poi se stesso. Françoise non è morta. Si trova all’ospedale, ma se la caverà! Michel non ce l’ha fatta! Non è più tra noi, Piffa! Tu, meglio di me, potrai entrare nel merito di questo folle gesto e sono sicuro, anche se non conosco i motivi che lo hanno spinto ad uccidersi, che sia scaturito da una grande disperazione. Vorrei che fossi tu per primo a leggere le parole lasciate da Michel come testamento, così come preferirei che tu fossi l’unico ad entrare nell’appartamento per prendere le sue cose. Caebourg è morta insieme con lui. Per le strade le persone mi sembrano più tristi del solito, nonostante nell’aria mi pare risuonare ancora la voce di Michel, carica di entusiasmo. Sono molto triste e ho perso di colpo la voglia di vivere. Un immenso vuoto si è impossessato di me. Mi manchi. Per ultimo, anche se non è proprio il momento giusto, volevo scusarmi per il comportamento da me tenuto l’ultima sera passata insieme a Caebourg. Mi dispiace molto di essermi comportato in un modo così irresponsabile e di avervi costretto ad accompagnarmi a casa. Sono stato proprio uno stupido. Te l’ho voluto dire solo per farti capire quanto quella faccia di Emile non sia per nulla veritiera. Mi scuso con tutto il cuore.   A presto Emile   5   Oceanus iste est, orbis effusi procul Circumlatrator, iste pontus maximus. Hic gurges oras ambiens, hic intimi Salis inrigator, hic parens nostri maris. Plerosque quippe extrinsecus curvat sinus, nostrumque in orbem vis profundi inlabitur. (da "Ora maritima" di Rufus Festus Avienus) Questo è l’oceano, cane latrante Intorno al mondo, re dei mari, Gorgo che avvolge ogni riva, Rifornitore dei bacini interni, Padre del nostro mare. Di là, da fuori, scava i molti seni E spinge fino al nostro continente La violenza del suo profondo abisso. Un’immensità segreta si allarga davanti ai miei occhi…inspiegabile ai più, spinti ad interpretare senza tregua i suoi reconditi misteri, mi appare, come vastità gigantesca ed indistruttibile, sotto forma d’onde. Con la sua carica di sacralità e sublimazione, è il mare a rendere possibile il trasferimento degli istinti più viscerali del mio corpo verso un valore carico di moralità. Sono solo, nel punto in cui la luce astrale degrada e forti venti di levante fanno giungere fino a me l’odore acre delle ortensie, delicatamente tinte d'azzurro e di rosa, e lo donano all’unica certezza di quel momento. Presi due ramoscelli di corallo, trascinati sotto i miei piedi nudi dalla forza delle onde ed iniziai a disegnare sulla sabbia il corpo esanime di Michel, sguardo fisso, occhi chiusi. Il volto era livido, di color verdastro con striature viola e gialle, proiettate dalla luce della candela che tenevo in mano. Fu così che si presentò ai miei occhi lucidi lo spettro di Michel. Un foro di proiettile rapì il mio interesse e lo costrinse sulle tempie di lui, quasi volesse ricordarmi quali fossero le ragioni di quel suicidio. Continuavo a fissare quell’immensa voragine, immaginando un miracolo e concentrando le ultime energie, affinché potessi allontanare dalla coscienza le mie colpe. Mi sarebbe bastata una lunga e spessa pennellata di nero per cancellare l’enorme buco, sporco di sangue, dalla mia testa. Rosso a spruzzi, arancio colato, rosa pallido, bianco… Immaginai il suo funerale come un lungo e pazzo corteo, affollato da donne nude e volgari prostitute, senza nient'altro indosso che sottili calze colorate di rosso porpora. Che bello sarebbe stato vedere il corpo di Michel sorretto da danzanti ballerine di cancan e attorniato da maschere carnevalesche, mescolate a variopinti personaggi del circo: un arlecchino, un clown, un giocoliere… La sua bocca, le labbra, le guance si sarebbero fatte sorridenti al pensiero di passare un’intera nottata in compagnia di questi. Le illusioni invadevano la mia mente come lo scetticismo e l’esultanza ondulavano nel senno di Dantés per l’antico tesoro di Faria. Avrei voluto concedere a Michel piaceri così goderecci da compensare i momenti più tristi della sua vita! Invece scorsi alte nel cielo grandi nubi blu e grigie in movimento, cariche di pioggia. La bara, fredda ed immobile, fu trasferita in tutta fretta dalla camera mortuaria dell’ospedale alla chiesa più vicina. Le campane di Caebourg rimasero in silenzio, le porte della Cathédrale serrate. Fu così che il prete disse la sua messa! Nessuno ebbe il coraggio di partecipare al funerale di Michel: né Françoise, né i genitori, né i parenti, né gli amici. Vidi soltanto abiti scuri, volti sorridenti coperti da veli neri e accompagnatori frettolosi di ripartire. Sul sacrario sigarette spente e sputi catramosi. Dopo la Morte scorsi anche il Terrore! Il sorriso scompare dal volto, subentra una sorda collera, rabbiosa ma nascosta, che ti costringe a tornartene a casa o ancora peggio a non uscire proprio dalla tua stanza. Pensavo che tutto ciò potesse farmi diventare un’ombra. Impossibilità e solitudine! Il corpo di Michel fu riposizionato sul carro funebre e trasferito in Ticino per essere sotterrato nel cimitero del paese natio. Così vollero i suoi genitori… Senza salutare nessuno, mi allontanai dalla chiesa con Emile al mio fianco. Senza scambiare neanche una parola, raggiungemmo l’appartamento, nei pressi di Rue des libraires, con l’intenzione di portar via da lì tutti i suoi ricordi. Mi tremavano le gambe, lo ricordo bene, e a stento, con l’aiuto di Emile, riuscii a salire i tre piani dello stabile. Giunsi davanti alla porta, infilai la chiave nella serratura, la girai per due volte. "No, Emile! Non posso…non posso entrare!" "Non vuoi controllare se hai dimenticato qualcosa di tuo?" "No, ti prego! Pensaci tu. Domani, quando sarò già lontano, metti tutte le cose lasciate da Michel in un pacco e spediscile in Ticino a casa dei suoi genitori" "Come vuoi, Piffa! E il testamento?", furono le ultime parole del povero Emile. Mi accompagnò alla stazione dei treni e lasciai per sempre Caebourg. Appena arrivato a destinazione, promisi, mi sarei messo in contatto con lui e ci saremmo rivisti, un giorno. Per sempre! L’ovest, i camaleonti e l’odore delle sardine appena pescate…la voce drammatica di un uomo intonò un'antica canzone d’amore, accompagnata dalla melodia di una chitarra scordata…nostalgia di un prezioso passato. Destinazione: ignota. Presi una stanza al secondo piano della locanda. L’unica del minuscolo paese. Duecento anime circa, tutte famiglie di pescatori. Sardine! Antonio mi accolse con il sorriso sulle labbra. Una carica d'infelicità costringeva questa gente ad un sottile e perenne sforzo dei muscoli facciali. Scelsi un luogo inesistente, a malapena segnalato sulle carte geografiche e bistrattato dal turismo, perché reputato senza interesse. Pagai cinque mesi anticipati e mi feci dare la chiave della stanza. "La cena viene servita alle venti in punto. Mia moglie ha preparato zuppa di pesce e sardine marinate. E’ una brava cuoca, se n’accorgerà. Un ottimo pasto per l’uomo del Nord!", esclamò Antonio, il padrone della locanda. Ci guardammo per un attimo negli occhi. Ringraziai con una stretta di mano e raggiunsi la mia stanza. Appoggiai senza ordine i bagagli sul letto a due piazze ed aprii la finestra. L’uomo del Nord. Tirai fuori dalla valigia una tela bianca, arrotolata con uno spago ed iniziai a dipingere. Tetti, con tegole blu. Anziane signore sedute ai lati delle strade e vecchi pescatori incurvati dal duro lavoro. Schiene piegate ed occhi bassi. Un solo pennello per un solo colore. Immaginai uno sfondo in cui intravedevo il mare, lo sentivo piuttosto. Un’inesauribile massa d’acqua, in continua evoluzione, si prendeva gioco dei venti e si muoveva a loro insaputa, come per gioco o per sfida? Un’insenatura, perfettamente piatta e priva d’onde, cambiava in un attimo la sua fisionomia per trasformarsi in una voragine frenetica e burrascosa. Tutto in pochi secondi. Buttai a terra il pennello! Poi la tavolozza, con rabbia… Per la prima volta nella mia vita non sapevo cosa fare. Non riuscivo a trovare la forza per liberare la mia innata ispirazione. Michel, Emile, Caebourg…troppi ricordi… Ripresi il pennello e stesi il colore con esagerata uniformità, creando la base per il quadro: una distesa piatta, priva di contorni e di movimento fu l’interpretazione che diedi del mare. Gettai a terra la tela e ne presi un’altra, bianca. Chiusi la finestra e senza pensarci su iniziai a dipingere il mio ultimo atelier, quello lasciato a Caebourg. Niente da fare! Sbattei il quadro, appena abbozzato, sul letto ed uscii dalla stanza. La locanda era un antico e decrepito stabile a due piani, costruito in legno, e utilizzato per l’essiccazione delle sardine, come affermò Antonio, "durante l’epoca d’oro della grande pesca. Tempi remoti, mio caro!" Un legno scuro, pieno di tarli e impregnato dell’odore delle sardine affumicate. Proprio così! Sardine! L’unico mezzo di sussistenza del paese. Solo donne e uomini anziani. Né figli né nipoti. Né nuore né amanti. L’odore penetrante del pesce era dappertutto: sulla spiaggia, dove il profumo del mare sembrava accompagnare al triste destino le sue figlie predilette, sui tetti delle case ingrassati e resi acri dal continuo essiccamento, ai lati delle strade pregni di un olio saturo di sudore umano e sardina. Salutai Antonio e attraversai l’intero paese, diretto alla spiaggia. Mi trovavo in cima ad una collina a picco sul mare. Una strada tortuosa, costruita con ciottoli e percorribile soltanto a piedi o in groppa ad un asino, si snodava per tre chilometri dal paese al mare. Lasciai dietro di me i tetti blu, le anziane donne ed iniziai lentamente la discesa, cercando di non lasciarmi sfuggire alcun particolare di ciò che vedevo. Percorsi i primi cinquecento metri. Decisi di aumentare l’andatura, sempre più veloce, sempre di più. Fu così che, in un istante, mi ritrovai a correre come un pazzo. Fui preso da una foga esagerata! Le gambe e le braccia erano concentrate a mantenere costante il passo mentre il cuore batteva costante e il respiro cercava di mantenersi lento e profondo. Un battito…un battito…un battito… La strada lasciò il paese e si fece ancora più impervia, concentrando tutta se stessa al pendio che puntava dritto all’oceano. Affrontavo le curve con sicurezza. Una dopo l’altra. Nel punto esatto in cui le continue volte sembravano ammassarsi per formare un corpo compatto, che potesse vincere la forza di gravità, fui costretto a rallentare la mia andatura. Capre, Carl! Di quelle selvatiche! Bianchissime, come quelle che s’inerpicano sicure sui pendii delle alpi ticinesi. Cercai di bloccarmi per non spaventarle, spostando tutto il peso del mio corpo all’indietro. Non riuscii nel mio intento. Quelle, intimorite, iniziarono a salire sui ripidi pendii ai lati della strada. Saranno state più di cinquanta! Montavano una sull’altra per fuggire il prima possibile. Fu il caos! I maschi, dotati di grandi corna ricurve su di un pesante corpo massiccio, presero per primi la via della fuga, montando senza ritegno sulle fragili schiene delle capre più lente. Poi seguirono le femmine con i piccoli al loro fianco. Ne rimase una sola! Era zoppa. Io, ormai giunto allo stremo delle mie forze, non riuscivo più a bloccarmi, tanto la strada si era fatta ripida e scoscesa. Giunsi quasi fin dentro al gregge di capre, riuscii a schivarne alcune, calpestai gli zoccoli di un grosso maschio che mi guardò con aria di sfida. La massa riuscì bene o male nella fuga. La capra zoppa, invece, prese a correre in direzione del mare, disperata! Non sapevo cosa fare. Se mi fermavo rischiavo di cadere, se continuavo avrei allontanato la povera capra dal resto del gruppo. Fui costretto a proseguire. Lei davanti e io dietro ad inseguirla. Una corsa folle, un inseguimento al contrario. Io che avrei voluto dirigerla in alto e lei che si sentiva costretta a scendere da una presenza estranea alle spalle. Finalmente giungemmo alla spiaggia! Stremati! Crollai a terra! Cercai di recuperare il normale respiro ed alzai gli occhi per comprendere… La capra era lì, davanti a me, e mi guardava fissa negli occhi. Marroni contro verdi. Immobili. Mi rialzai lentamente per non spaventarla ancor più e provai ad avvicinarmi, quasi per scusarmi. Fu lei che prese l’iniziativa. Mi leccò le mani e se n’andò. Forse fu qualcosa di più di una liberazione. Aspettai seduto sulla sabbia il tramonto del mare, pensando all’alphorn rimasto incompiuto nella casa dei miei genitori. Mi alzai e salutai il sole con un inchino. Senza una reale speranza di rivederlo domani! Tornai nella mia stanza, senza neanche andare a curiosare cosa avesse preparato la moglie d’Antonio per la cena. Mi misi a dipingere. Ripresi in mano l’ultima tela, appena iniziata, e stesi il verde per mescolarlo con l’azzurro. Pensai ad Antonio. Una vita senza emozioni, senza futuro…solo privazioni…e sorrisi… Un vecchio pittore, rugoso e malato, mi guardava dritto negli occhi. Al mio fianco stavolta una donna. Mi ritrovai nudo, abbracciato alla persona che avevo sempre desiderato amare, ma che ancora non ero riuscito ad incontrare… Voltai la tela al muro. Avevo un assoluto bisogno di sfogarmi con qualcuno che potesse stare lì ad ascoltare le mie parole, senza farmi domande o darmi consigli. Volevo parlare, così come fece Michel al museo. Uscii dalla stanza e raggiunsi la sala da pranzo ubicata al piano terra. Le luci erano spente! La locandiera era già andata a dormire. Percepii delle voci provenire dall’atrio, dove Antonio solitamente accoglieva, con una stretta di mano, i rari clienti. Mi avvicinai per sentire meglio. Una voce femminile. "Resteremo una settimana o forse più, io e mia figlia!" "Siete in vacanza?", chiese Antonio. "Piuttosto alla ricerca di un luogo per liberare la mente!" "Bene, questo è il posto giusto!", e ancora, "la colazione, domani, sarà servita alle nove in punto. Mia moglie vi cucinerà caffè e pasticcio di sardine. E’ una brava cuoca, ve n’accorgerete! Donne del Nord alla ricerca di…"       6   Lasciarono ad Antonio le loro valigie le due donne mentre io me ne stavo fermo, appoggiato al muro, in piedi a curiosare la scena con occhi pieni di pacata attenzione. La moglie del locandiere fugacemente salutò le nuove arrivate da dietro la porta semichiusa che separa l’atrio dalla sala, una volta utilizzata per l’essiccazione delle aringhe. Fece un cenno con la mano, sorrise e richiuse delicatamente l’uscio, così come mi ero immaginato avesse fatto tutte le volte che qualche forestiero fosse entrato. La signora, a prima vista, mi diede un’impressione di donna austera. Altissima e magrissima nei suoi vestiti chiari di pura seta e impreziositi da finissimi merletti bianchi, simili a quelli che indossano le contadine ticinesi nei giorni di festa. Mi parve s’incuriosì di me la figlia. Mi accorsi della breve occhiata che mi diede e allo stesso tempo della velocità con cui tornò a seguire con vera e propria sudditanza corporale i passi della madre, la quale nel frattempo si era fatta porgere da Antonio le chiavi della stanza e non aveva perso tempo cominciando a muoversi in mia direzione, dato che mi trovavo proprio sulle scale che portavano al piano superiore del vecchio essiccatoio. Per cortesia mi staccai dal muro per passare dalla parte esterna delle scale, quella affacciata e sospesa sopra l’atrio. Passò la madre. Accennò un sorriso e mi salutò per prima senza darmi possibilità di anticiparla. "Buona sera!", disse con un’impostazione particolarmente solenne. La donna mi scavalcò senza far molto caso alla mia persona e senza darmi la possibilità di rispondere, proseguì senza degnarmi di un solo sguardo. "Un lungo viaggio vi ha portato fin qui?", fu la domanda che rivolsi alla figlia con l’intenzione di interrogare la madre. Il corpo di un uomo nudo con affianco la donna amata dipinsi, appena tornato nella mia stanza. Ripresi la tela rimasta appoggiata al muro da quel pomeriggio passato in spiaggia ad ammirare un sole senza speranza alcuna che potrà domani riaffacciarsi a rischiarare la vita delle persone e cominciai da capo. Pensai intensamente all’esistenza di una fanciulla costretta dal padre a restare tutti i giorni segregata in casa. Me la immaginai bella ed attraente, gonne lunghe fino a sotto le ginocchia e viso pallidissimo privo di trucco. Un sogno l’avrebbe portata lontana da lì, da quella casa maledetta e l’avrebbe trasferita tra le braccia di un uomo. Nuda, completamente nuda e protesa verso il possente corpo di lui, uno qualsiasi con il quale fuggire e realizzare una vita insieme. Maternità, educazione di figli, famiglia, senilità, morte. E’ chiedere troppo? Sia un desiderio pocanzi espresso esaudito da colui che aspetta…serpe allo specchio rimiro te…esaudito? Lei la pitturai subito, d’istinto, senza una minima esitazione. Capelli mori lunghi, pelle liscia e sguardo languido di sottomissione verso l’uomo il quale, invece, mi rese difficile la nottata a causa dei continui incubi ad occhi aperti sull’immagine ancora viva e presente di Michel. Non riuscivo proprio a non pensare a lui. Disegnai il viso, i capelli, il corpo e l’espressione di Michel. Le sue apparenze, sembianze, allusioni lontane… Ricordo che ne uscii distrutto, ero preoccupato perché volevo che lui non pensasse, com’era solito, "patetico, una delle tue solite paranoie!". Le due figure occupavano il lato sinistro della tela come in un riquadro. Presi un colore blu intenso e feci attorno al disegno una cornice interna come per dire "questa è fatta, ora preoccupiamoci del resto". Non mi ci volle molto ad immaginare una donna con in grembo il proprio bambino e ancora meno la stessa, anziana e sola. Impregnai il pennello d’altro blu e senza soste terminai il quadro in poco meno di due ore. Seguì un’alba indecifrabile e nascosta da un’insolita foschia proveniente da terre a me familiari. Aprii la finestra e godetti del profumo della ginestra. La vita sembrava, in quel preciso istante, prendere una direzione ben delineata verso una relazione intima e costante con le terre prossime al mare. Qualsiasi mare…massa d’acqua in eterna burrasca per ricordarmi senza esitazioni quali sono le questioni importanti della vita. La pace interiore…golfo calmo e limpido ideale da solcare, penetrare, percorrere, attraversare silenzioso come le creature che ospita. Sardina! Questo mi viene in mente! Potrei imbarcarmi su qualche peschereccio per capire più a fondo il mio spirito e …sto vagheggiando come al solito, come facevo da bambino. Sognavo vivamente di fuggire da una situazione sgradevole e di essere accompagnato per mano da un’anziana signora che mi mostrava la realtà. Ha preso la mia mano e mi ha portato, nella notte buia, davanti ad un uomo che diceva messa dentro una stanza piccola ed angusta e poi davanti al portone di una grande chiesa dalle forme gotiche, dal quale uscivano decine e decine di gattini. Le chiesi, una notte, "sono gatti, quelli?" E lei rispose "No". Richiusi la finestra, senza neanche badare a quello che stava accadendo fuori. Mi fermai un istante, spalancai gli occhi e la riaprii di scatto. Era proprio lei. La figlia della donna del Nord. Saranno state circa le sei della mattina e lei era seduta sul tetto della casa antistante la locanda. Mi affacciai subito per attirare la sua attenzione. Che bella! Non ho mai incontrato una ragazza più bella di lei. Guardava fissa verso il mare e rideva. Un sorriso che non dimenticherò mai. A tutta bocca. Che cosa avresti fatto, Carl? Un saluto, un cenno con la mano? Chiusi la finestra, coprii la tela con un panno ed uscii dalla stanza senza ricordarmi di chiuderla a chiave. Scesi le scale in tutta fretta ed andai fuori dalla locanda. Una casa color ocra con tantissime fotografie appese al muro, sparse ma con un senso logico. Folletti, omini verdi frutto di una fervida e fanciullesca immaginazione e fili, tanti fili appesi al muro che sembravano avvertirmi su quale direzione prendere. Seguii, così com’ero solito fare da bambino nei momenti noiosi dell’infanzia, causa insolite decisioni prese a priori per il mio bene da persone adulte, con occhimmaginazionecuriositàdolcefollia le forme geometriche create da quei fili…un dito fa da pennello e disegna quadrati che si trasformano in spirali, in triangoli in linee parallele. "Stai attento se decidi di entrare qui fallo perché ne sei veramente convinto!", sembravano dirmi quelle linee continue. Entrai. Era buio e umido l’atrio, mentre profumato ancor più intensamente della locanda di un denso olio d’aringa il piano superiore. Presi un bel respiro dal naso e proseguii sulle scale. Superai il secondo piano e raggiunsi l’entrata del solaio da dove credei lei fosse presumibilmente passata. Dimenticai per un istante la mia indole… Fu così, Carl, che dischiusi la pesante porta di ferro…         7   Vidi onde, indistruttibili affianco a lei. Uno sguardo mille parole e luce nei suoi occhi, grandi! Mi venne naturale chiederle per quale motivo avesse deciso di fermarsi in quel luogo sperduto…una scoperta e un posto per lasciarsi dietro il passato…me ne rallegrai. "Vieni qua, avvicinati", sibilò. Le parole uscirono facili e naturali. "Mio nonno ed io sedevamo spesso sul tetto della casa, in cui vissi durante l’infanzia", e proseguii "guardavamo le montagne per ore, senza parole, senza commenti". "Continua", chiese lei. "Ricordo che a volte lui indicava un punto lontano con la mano, come volesse segnarmi fermamente la via sicura e giusta da percorrere, a volte, pensando che io non me n’accorgessi, faceva scorrere una lacrima sul volto segnato dalle rughe, segni della sofferenza." "Dov’è la tua casa?" "Sul ciglio della vallata." Lei stese il corpo bianchissimo sulle tegole come fosse un tutt’uno con queste ultime. Incastrò le scapole tra le pance delle onde e poggiò saldamente il sedere sulle creste. I suoi capelli neri, intrecciati in una lunga coda, le caddero lungo le spalle. Evitai di fissarla per non farle capire che mi eccitava molto quella sua posizione. Muscoli in tensione, seni all’insù, cosce socchiuse. "Ho sempre sognato di vivere in una casa sommersa dai fiorellini, circondata dalle capre e visitata dai passerotti in cerca di briciole per l’inverno." "Prova a chiudere gli occhi e forse la vedrai", le proposi. Lei, come niente fosse, socchiuse i begl’occhi ed espirò lungamente e profondamente. Pensai al mio corno, dimenticato in Ticino e lasciato marcire chissà dove, se nella cantina di mio padre o nel giardino della villa. Lo materializzai e lo impugnai con tutte e due le mani. Presi un respiro a pieni polmoni e vi gettai dentro tutta la mia energia…il suono penetrò nelle umide case, negli stretti vicoli e, come un fiume in piena, arrivò fin giù al mare per disperdersi a macchia d’olio sulla superficie dell’oceano. Lei aprì gli occhi, spostò il corpo e lo sguardo verso di me e mi vide ancora con le mani che sembravano tenere lo strumento. Spalancò le palpebre ed esplose in una fresca risata. "Grazie", aggiunse. Prese la mia mano dolcemente e mi sussurrò al collo, "Portami lontano, portami a vedere il mare." Scendemmo le scale senza regole, sbattemmo fortemente la porta per uscire da quella casa e, senza mai lasciare la presa, mi trascinò con dolce impeto giù per la ripida strada, la stessa lungo la quale incontrai le capre. Le capre… Le gambe si muovevano senza la minima esitazione, vigorose più che mai. I miei piedi erano zoccoli piantati nel terreno scivoloso. Lo sguardo alto al cielo e il corpo pieno di brividi. Tremavo solo per il fatto di non aver mai avuto vicino a me una persona carica di così tanta vitalità. La mia fanciulla volava, non camminava. La timidezza e la paura che si accorgesse dei miei sguardi, a volte delicati a volte penetranti, non mi permisero di godere appieno dei suoi movimenti, percepiti appena, lieti ed erotici allo stesso tempo. Percorremmo i tre chilometri in pochi minuti. Case in pietra, finestre senza vetri, odore di rosmarino selvatico. Volava, lei, verso l’acqua. Con me vicino, in balìa di una forza che mi spingeva giù, giù, giù sempre di più. Il mare era ormai a pochi metri di distanza da noi e non appena arrivò a me l’odore pungente e denso delle alghe, morte sul bagnasciuga, sentii la sua mano stringere forte la mia. Colsi, forse, in lei un leggero tremito, che avvertii passare su di me, impreziosito dai costanti e inebrianti soffi del suo odore. Forte e preponderante. Avvolgente ed appassionante. Misi piede sulla sabbia finissima non prima d’averla stretta fra le mie braccia. Appoggiai dolcemente un braccio sotto le gambe nude e con l’altro sorressi la sua schiena. Con le dita della mano sinistra sfiorai appena la tenera pelle del suo fianco e con il naso sentii l'odore dei capelli. "Aspetta! Come ti chiami?", mi chiese sottovoce. "Jouet!", mi venne istintivamente. "Ho paura", continuò esitante. Capii che non era il caso di rispondere. L’appoggiai, facendola scivolare con estrema lentezza, sulla sabbia. La presi per mano, Carl, e la portai con me sulla cresta di una spumeggiante onda di riflusso, che pareva non finire mai…lontano dalla terraferma scoprii che cosa significasse desiderare un lungo abbraccio. "E’ ora di tornare, per me", affermò forse troppo bruscamente. "Vorrei non finisse più", risposi. "Ci vedremo domani allo stesso posto, se vuoi, Jouet!" "Aspetterò con trepidazione quel momento." "Allora a presto!" "A presto", lei si voltò per prima e prese a camminare. Poi si bloccò di scatto. "Non vuoi sapere qual è il mio nome?" Non mi accontentai. Passai giornate intere ad osservare ogni suo più nascosto segreto…mi pareva d’essere Michel davanti alle sue tele… …i respiri silenziosi animavano il suo corpo. Lungo la battigia le frasi si sforzavano di sembrare accomodanti e poco fastidiose per le orecchie. Tutto cade o cadrà…è lei ad avere addosso il profumo più inebriante che abbia mai annusato…i fiori di rue du marché, le fredde ed umide acque del lago, gli schizzi di colore sulla tela. Neanche Michel, con la sua magica e raffinata polvere di colore, mescolata ad olio di lino, riuscirebbe a farmi raggiungere un’estasi così profonda, come quando percepii per primo la forza del suo odore…un corpo che vive, avvolto di mistero e portato con estrema vivacità. Lo prenderei, se potessi, e lo dipingerei di giallo, di un giallo ocra…e lo modellerei a spicchi e a triangoli e a cunei, impazziti a causa dell’assoluta e inedita mancanza di rilievo. Stenderei i tratti senza una vera e propria decisione artistica, senza un’impronta del passato così come sentivo di essere in quel preciso istante…libero dai ricordi caebourghesi. Troverei il modo per giungere ad un’implosione…progressiva ma incompiuta. Può un uomo dimenticare un istante di vita passato ed immaginare un futuro con l’unica donna amata? Svanisce con il tempo la sua sembianza…corpo sottile ora magicamente trasformato in un’incredibile e compatta scultura…e i piedi? I più belli…decisamente adoro la particolare soggettività, che mi costringe tutte le notti sveglio ad ammirare e desiderare le sue forme gentili e semplici… Un basso tavolato verde attraeva i nostri sensi. Poggiai il cavalletto e spiegai la tela. Iniziai con un’insolita serenità a mescolare i colori. Rosso, giallo, verde, marrone. Immagina la scena, Carl: un panorama composto da cielo azzurro velato appena da rare nubi, prato verde punteggiato da fiori rosa e piante grasse, roccia granitica a strapiombo sul mare in burrasca. E vento tesissimo. In primo piano davanti a tutto questo c’era lei, appena coperta da un soffice e svolazzante tessuto di seta azzurra, in piedi con la testa all’indietro e gli occhi appena socchiusi. "Sfiorati i capelli con entrambi le mani, per favore", quasi le ordinai. Obbedì. Appoggiai il colore sulla tela, con leggera esitazione, per non rischiare di tingere troppo il suo naturale candore. Modellai la sua sagoma con estrema attenzione ai particolari. Fianchi così tondi ed arricchiti da sensuali onde di morbida carne non possono esser trascurati e schiacciati da occhi penetranti ma falsi. "Sovrapponi la punta del piede destro sull’altro e piega appena la gamba". Un’occhiata sfuggevole mi fece capire che si sarebbe adeguata alle mie richieste ma che da ora in poi qualcosa sarebbe cambiato. Acconsentì e aprì la bocca per prendere un respiro. I polmoni si gonfiarono, le costole quasi uscirono dal torace e fecero in modo che i bei seni esplodessero verso il cielo. Senza che io le proferissi quale posizione tenere, si sfilò il vestito di dosso e mostrò un corpo appena ambrato dalla luce del sole. L’idea di una forma statica e delicatamente sensuale, che mi era venuta in mente per ritrarre la donna nella sua naturale espressione, si trasformò di colpo in una conturbante e selvaggia rappresentazione della sovrumanità. Mi alzai di scatto dallo sgabello, feci cadere inavvertitamente il cavalletto ed andai per afferrarla. Lei, aspettando proprio quel momento, iniziò a correre, completamente nuda. La seguii d’istinto. Accorciai il distacco. Pochi metri e la strinsi alle anche con entrambe le mani. Appoggiai le ginocchia a terra e la trascinai giù con me. Fu lei a prendere l’iniziativa. Un bacio rabbioso mi fece battere la testa al suolo…poggiò su di me l’intero peso e continuò così…labbra carnose sulla mia bocca, sul collo, sulle spalle, sul petto…i morsi erano sempre leniti da successive linguate sul punto azzannato. Cercava i muscoli in tensione con la bocca e sferrava una stretta con i denti che mi faceva quasi svenire dal dolore…la saliva, appena dopo, rinvigoriva il mio desiderio. E così via, scendeva e saliva lungo tutto il mio corpo, ormai completamente spogliato. Ricordo che poggiò la bocca sul mio piede sinistro intenzionata a strapparmi un urlo…tesi l’addome, alzai di scatto il busto e presi tra le mani la sua testa…le guardai gli occhi per qualche secondo…abbassai lo sguardo sulla sua bocca e vi appoggiai con lentezza la mia. Finì, così, la rabbia che le faceva perdere il controllo e sentii con sicurezza un fremito passare lungo tutto il suo corpo. Sfiorai e risfiorai all’infinito ogni parte di lei…poggiai il mio petto sul suo…i capezzoli erano appena tinti di rosa pallido, l’odore vivace dei seni si mescolava con quello delle non lontane ortensie. L’oceano echeggiava violento dietro di noi. La donna che amavo allungò indietro la testa per udirlo meglio e mi fece segno di sovrapporre il mio mento al suo. Iniziai lentamente a muovermi dentro di lei…chiusi gli occhi…il mare si fece sentire ancor più…sospiri…gemiti…bocche spalancate. L’eccitazione raggiunse il suo acme…un minuto…un’ora…l’aria si fece densa e umida e noi eravamo ancora lì, come un tutt’uno ad ascoltare il profumo del mare.       8 L’appuntamento quotidiano avvenne sempre nello stesso luogo alla tal ora, almeno fino al giorno in cui le donne del Nord tornarono da dove erano venute. Lei era lì con un leggero anticipo…correvo senza mezzi termini tra le sue braccia…mi stringeva la mano e mi portava con sé tra le lunghe onde dell’oceano. Ora non penso più a niente proprio a niente…mi sfugge tutto dalla memoria, non mi accorgo di quello che gira attorno a me. Nessun’immagine passata, nemmeno un ricordo del tempo trascorso insieme con te. Era mezzogiorno della domenica di un paese sconosciuto ai più. La madre di lei decise di partecipare alla sfilata, organizzata per ricordare i tempi d’oro della "grande pesca" alle sardine. Proprio quella domenica. Un solo luogo ed un’unica festa, organizzata con mesi d’anticipo e frequentata da tutti: Antonio con sua moglie, le signore dipinte dalla finestra della mia stanza, i vecchi pescatori, cani, gatti, capre e gabbiani. Ed ora anche dalla donna del Nord! Rimasi senza parole quando la figlia decise di seguirla. "Scusami Jouet, la mamma vuole che vada con lei lungo il corteo" e ancora "ti dispiace?" "No!", che voleva dire sì. "Lei ci tiene e da quando noi due ci frequentiamo, sai, l’ho un pò trascurata." "Sì, hai ragione, è vero", risposi con freddezza, infastidito per il mancato invito. Erano passati già tre mesi dalla loro comparsa e ancora non avevo conosciuto la madre. Capitava di salutarci di sfuggita lungo le scale o d’incontrarci per le vie del paese, dandoci il buongiorno o la buonasera, con un segno del capo. Niente di più. Non comprendevo per quale motivo lei non volesse presentarmi sua madre. Così, senza mezzi termini, glielo chiesi. "Beh, siccome non ho ancora avuto la possibilità di conoscere tua madre, potrei venire insieme con te. Sarebbe un’occasione speciale." Silenzio. Ancora silenzio. Le sue mani manipolavano freneticamente un bastoncino di legno e i suoi occhi fissavano un punto immaginario per terra. "Allora, che ne dici?", ribadii. "No! Non è il momento. No…no…e non chiedermi altro", e ancora "oggi lasciami stare, è proprio il giorno meno indicato per darti delle spiegazioni. Non ti irritare ma è meglio che ci troviamo un’altra volta, ciao", così mi lasciò, voltandosi ed allontanandosi. Eccolo là tragico fino in fondo, creatore di mondi paralleli a quelli reali. Già proprio così, amore mio, reagisco alla tua presunta indifferenza e non me ne vergogno affatto. Almeno agisco e non lascio nulla al caso, nulla sospeso se nulla va lasciato sospeso e al caso. Questo fa grande il nostro legame: pensieri logici, discorsi liberi da costrizioni dettate dalla noia, dall’abitudine, dal sovradosaggio d’elementi esterni alla nostra mente. Questa sembra essere per me la via giusta, per godere della vita insieme con un’altra… …persona, che pensavo fossi tu. Tragico fino in fondo e non mi fermo qui. Non mi sento in grado di giudicare nessuno, però mi sento pronto a reagire ad una relazione lasciata in sospeso da situazioni a me estranee. Fu così che decisi di partecipare alla sfilata. Andai da Antonio e gli chiesi a che ora si sarebbe svolta. "Come tutti gli anni, caro mio, alle otto della sera, in punto, il prete dirà una messa in onore dei pescatori che hanno perso la vita in mare." Il locandiere fece una breve pausa quasi per farmi capire in che modo organizzare la mia partecipazione alla festa e continuò, "La statua del nostro venerabile santo sarà trasferita, lungo tutta la discesa, fin giù al mare, dove l’attenderà una barca di legno, che la porterà in navigazione per l’oceano". "Poi che succede?", chiesi. "Quando l’imbarcazione sparirà dall’orizzonte e, dopo alcune ore, riapparirà e tornerà a riva carica di pesce, inizieranno i festeggiamenti", concluse Antonio. "Quante ore si dovrà aspettare?" "Non si sa. Lo scorso anno attendemmo tutta la notte e la statua riapparve all’alba", ricominciò a raccontare ancor più fiero di prima. Io ero troppo distratto e malinconico per ascoltare le sue parole e capire che la festa sarebbe stata, per quella gente, l’unico evento lieto, durante l’arco di trecentosessantacinque giorni. Diedi appuntamento ad Antonio direttamente dentro la chiesa e salii le scale per rifugiarmi nella mia stanza. Non vidi ne sentii le voci delle due donne. Entrai, mi tolsi le scarpe che avevo indosso e le gettai malamente in un angolo. Mi appoggiai a corpo morto sul letto e caddi in un profondo sonno. Mi ritrovai steso a terra, testa appoggiata al muro di un edificio, corpo sul marciapiede di un lugubre vicolo. Occhi semichiusi, cuore in affanno. Percepisco in lontananza il rumore della città: automobili che sfrecciano veloci, tacchi d’eleganti di signore appena uscite per gli acquisti, cani latranti, clacson. Vorrei alzarmi. Mi sento in difficoltà a star lì sdraiato fra i passanti. Un peso insormontabile mi blocca i muscoli, non sento più l’energia vitale…tutto bloccato…tutto morto. Provo a chiudere gli occhi ed attendere qualche istante. Passa il tempo. Niente. Tutto fermo, tutto immobile. "Alzati, su, alzati!", mi strilla una voce dall’aldilà. Un’anziana signora s’inginocchia affianco a me e porge la sua mano per aiutarmi. Apro gli occhi e vedo il suo dolce sorriso. "Sii felice", mi accarezzò e sparì per sempre. Scattai in piedi sul letto, completamente sudato. Mi guardai attorno. Mal di testa e un frastuono infernale. Mi alzai ed aprii la finestra. Le anziane signore, che dipingevo sedute ai lati dei vicoli con il capo chino e seminascosto da grandi fazzoletti, correvano a testa alta, frenetiche, in direzione della piccola chiesa patronale. I tetti blu erano illuminati a giorno da luci scintillanti. Torce infuocate schiarivano la notte agli angoli delle strade. Cani impazziti ed Antonio. "E’ l’ora! E’ l’ora!", urlò a squarciagola. Sentii la locandiera parlare con una delle due donne del Nord. Mi avvicinai alla porta per meglio ascoltare. "Ecco, questo va indossato sul capo. Tutte le donne devono coprirsi in rispetto ai martiri del mare", spiegò. In effetti, le anziane signore indossavano un lungo velo nero, che fasciava la testa e scendeva arrotolato sulle spalle. Antonio, insieme alla moglie, uscì dalla locanda seguito dalle due donne. Mi riaffacciai alla finestra, ma la compagnia era stata già inghiottita dalla folla. Mi vestii velocemente indossando una camicia bianca, un paio di pantaloni lunghi e scarpe. Aprii l’uscio della locanda e fui rapito dal violento fluire della gente in corsa. La testa mi stava per esplodere. La pace dei mesi precedenti strideva fortemente con le urla brutali delle donne. Dialetto incomprensibile. Gridavano, piangevano, si battevano il corpo con bizzarre fruste intrecciate di vimini. Una massa in trance, ricordo. Gli uomini seguivano il corteo dalle finestre delle case e da lassù gettavano, con movimento preciso e veloce, reti da pesca a mano, come fossero lazi. Al posto dei coriandoli e delle stelle filanti eravamo coperti da reti. E come i pesci a rischio di cattura mi dovevo muovere in modo da evitare di entrare in qualche tranello. Al mio fianco, una donna inciampò sulla rete appena lanciata sopra le nostre teste e cadde a terra. L’aiutai a rialzarsi. La mia amata era sparita, travolta dalla folla. La chiesa mi sembrava irraggiungibile, così decisi di deviare per un vicolo laterale e provare a raggiungere la meta da un altro punto. Sarei arrivato davanti alla chiesa prima di Antonio e degli altri? Feci così, Carl: corsi in avanti il più possibile, scartai due, tre, quattro donne e mi gettai a destra con le spalle appoggiate ad un muro. Inciampai su qualcosa che mi sembrava un corpo esanime, ma non me ne preoccupai. Scivolai lungo il muro per circa dieci metri e raggiunsi l’angolo di un viottolo. Girai la testa e vidi la strada. Buia e deserta…i miei nervi si rilassarono, la testa tornò a ragionare. Senza correre m’incamminai in direzione della chiesa. Vidi la gatta nera, Pepe la chiamava lei, le accarezzai la pancia e continuai. Si sentiva in lontananza riavvicinarsi il triste e concitato vociferare della festa. Un’accecante luce bianca mostrava a me il punto focale da raggiungere. Fuoco, torce, esalazioni… Presi un lungo respiro e gradualmente iniziai a correre. Prima lento, poi un pò più veloce, infine con tutte le mie forze giunsi sul sagrato e m’infilai come un razzo tra la gente. La vidi. Era là, tra gli altri. Non interruppi la mia corsa. "Ora ci provo, ora ci provo", dicevo tra me e me. Spalleggiai due grosse signore, sfondai il muro dei sacrestani in parata e in un secondo afferrai con virulenza la mia donna. La presi e la portai con me, lontano dalla madre e dalle sue imposizioni. "Lasciami! Che cosa stai facendo?", e ancora, "sei impazzito?", mi urlò nelle orecchie la sua rabbia. L’abbracciai senza dire una parola. Eravamo ancora nel mezzo del corteo. La baciai. Lei spostò bruscamente la bocca. "Ti devo parlare. Vieni con me, fuori da questa bolgia", dissi. Mi prese la mano e senza degnarmi di uno sguardo mi strattonò per farmi uscire da quella situazione imbarazzante. Scendemmo sotto la piazza seguendo una ripida via formata da lunghi e quasi impercettibili gradini e ci appoggiammo vicino ad un muretto. Le voci si stavano pian piano attenuando. La gente si apprestava a lasciare il sagrato e ad entrare in chiesa per la messa, in ricordo dei martiri. I martiri del mare, disse Antonio. Accennai un sorriso riconciliatore e lei, senza pensarci troppo, mi diede uno schiaffo sulla guancia. Rimasi con il sorriso stampato sulla faccia. Non reagii. Mi guardava con cattiveria e mi avrebbe dato un altro schiaffo se non avesse capito subito che cosa mi stesse accadendo. Abbassò lo sguardo, in segno di vergogna. "Scusa, Jouet, non volevo. Scusa!", disse e si tolse il velo nero dalla testa. "Non devi giustificarti, hai fatto bene, me lo sono meritato" e dopo un sospiro, "è meglio se torni da tua madre, sarà già preoccupata". Le sfiorai la mano e pensai "questa è l’ultima volta che la vedo, stavolta l’ho fatta proprio grossa". Non cessava per un istante di fissarmi e di contro anch’io facevo lo stesso. Lei penetrava e capiva i miei occhi, io resistevo a mala pena. "Vieni qua!", mi disse, come la prima volta. Il cuore mi batteva fortissimo, le gambe erano molli, la pelle scossa da fremiti. Salì sul muro e si sedette. Lo stesso feci io. Incastrai le mie gambe tra le sue e ci abbracciammo con passione. "Che disastro che sei", disse a bassa voce. "Mi sei mancata troppo, non ho resistito." "Se solo avessi aspettato la fine della festa." "Ti amo", le dichiarai. Mi baciò e mi strinse con amore sincero. Scese dal muro e riprese la direzione della chiesa, intenzionata a tornare dalla madre. Stavolta non dissi niente, né cercai di trattenerla. Camminava in direzione opposta alla mia e si girava un pò per vedere se stavo ancora lì. Ricontinuava e si rigirava con un dolce sorriso. Il mio sedere era incollato a quel muro. Volevo alzarmi per raggiungerla, ma una forza dall’Ade mi tratteneva là sopra. Si voltò per l’ultima volta e sparì. Spazi dilatati, forme squadrate e orizzonti chiusi dai tetti delle case attorno, tonalità tendenti al grigio, al bianco, al bruno. Tutto mi appariva improbabile. Nella mia testa era assolutamente assurdo scontrarsi con il pregiudizio e la chiusura mentale della madre e ancor più difficile sarebbe stato farmi accettare. Era impossibile che entrassi in quella chiesa, ascoltassi la messa in assoluta tranquillità ed uscissi a fianco della mia donna amata, stretta a braccetto d’Antonio. Testimone…o testamento? Testamento di Michel, mai letto e rimasto nelle mani d’Emile a Caebourg. Chissà cosa vi avrei letto sul quel foglio. Ho bisogno di una musica sublime per rilassarmi e reagire alle mie paranoiche fantasie…un introduzione di tamburi lontani sarebbe perfetto per rischiarare la mente, flauti leggeri e delicati come l’aria, viole romantiche di sottofondo. Michel, amico mio, perché mi hai abbandonato? Mi sento solo, più che mai adesso…perché non sei qui a darmi una pacca sulla spalla o a semplificare i miei pensieri nodosi e complicati? Tutto finisce, tutto cambia e scorre sotto i piedi, come l’acqua di un torrente in corsa. Guarda Piffa! Le gonne iniziano a muoversi al passo del valzer, abbracciala, baciala, che occhi! Non pensare a me, che ho la luce nelle pupille. Alza la testa, togli dal viso quell’espressione malinconica da arlecchino triste, ahahaha, componiti e chiuditi il cappotto fin su al collo sembrerai più gentile ed interessante…aspetta che sia lei ad appoggiarsi alla tua spalla e non farti impressionare dallo sguardo severo della madre, anzi ignorala e che sia tu ad abbracciare la donna che ami…con grazia toccale il braccio e veglia su di lei, adorala ma non dirglielo mai, caro mio, emozionati delle sue emozioni e gioisci delle sue stupide pazzie…vivi le tue nozze come se fossi l’attore protagonista di una divertente commedia francese di inizio secolo…lei arriverà con un cappello appoggiato sulla testa ed un velo bianco a coprire le spalle, godi e circondati di fiori gialli e rossi e verdi e spogliati di tutto…trasforma tutto quello che pensavi di sapere sulla vita e su te stesso perché lei è lì che ti aspetta. Ora vai e addio, amico mio. Michel richiuse gli occhi e si addormentò per sempre. Mi avvicinai alla chiesa. La distanza fra di noi sembrava si fosse duplicata, triplicata, centuplicata e stesse annullando gli sforzi e i sogni fatti per accorciare gli intervalli. Non ci crederai ma lo sono, la persona forte e decisa che solo così si può amare, per farti vivere e non solo sorridere tutti i giorni. E’ inutile…ormai sono deciso…sarò ironico e brutale! Non più camicie strette, modelle ispiratrici, tratto penetrante e forme impudiche nella mia mente. Una mattina mi alzerò dal letto e senza farmi notare da lei uscirò di casa e non tornerò più. Non tornerò ad essere la persona di tutti i giorni…quella legata ai discorsi degli altri, ai volti sconosciuti incontrati per le strade di Caebourg, agli umori influenzati dal passaggio di un individuo più prestante ed influente di me. Non tornerò! Era una notte umida e offuscata da una pesante nebbia. I lumi stesi sugli stretti viottoli erano magicamente circondati da densi aloni d’aria fredda. Per istinto mi venne di arrampicarmi su di un cornicione per prenderne uno. Lumi ad olio. Lo impugnai con la destra e lo portai con me lungo la sfilata delle case. Balconi vuoti sopra la mia testa e finestre serrate. La musica fece un ultimo giro di note e s’interruppe di colpo. Poggiai la fiaccola su di un sostegno in ferro e la spensi. Entrai in chiesa. Uno contro mille. Un uomo in piedi che predica rispetto, amore, gioia contro mille occhi illuminati dalle sue parole. I gesti predefiniti, le parole ad effetto, i profumi esotici, gli oggetti luccicanti e puliti mi confondono l’anima. Il prete alzò il calice al cielo e il mio respiro rimase, per una manciata di secondi, fermo ed immobile. Una dolce serenità m’invase. La navata centrale del tempio si trasformò in un accecante passaggio di luce. Le stelline si fecero luccicanti, l’organo sparò su di me l’oro delle canne, sull’altare Cristo si alzò al firmamento e illuminò l’inimmaginabile. Entrai per un palpito in quel segreto…. "Vieni!", mi sentii pronunciare alle mie spalle. Girai lo sguardo, era Antonio che m’invitava ad avvicinarmi a lui e alla sua compagnia. Tutti lì erano. Rimasi immobile. Fu lui a prendermi la mano e a condurmi con amichevole grazia al suo fianco, quasi avesse intuito il mio stato d’animo. Il locandiere mi lanciò un sorriso, decisamente appena accennato, che significava all’incirca "resta qua e non muoverti, cretino!". Acconsentii in silenzio come fa un figlio al sincero consiglio di un padre. La moglie di Antonio e la donna del Nord restarono immobili, inginocchiate una accanto all’altra ed in estasi. Non si accorse di me la prima, mentre ignorò la mia fisicità la seconda e disprezzò con un profondo espiro la nuova presenza. La collocazione che tenevo sulla panca e la situazione imbarazzante non mi permettevano di capire dove fosse la mia donna. Non avevo il coraggio di alzare gli occhi da terra perché conscio di trovare prima quelli della madre e poi forse i suoi. Gli ecclesiastici in divisa e, appena dietro, gli anziani pescatori si posizionarono attorno alla grande statua del santo. Anche Antonio si tolse dal suo posto per portarsi vicino al simulacro. Di seminaristi e chierichetti neanche l’ombra. "La messa è finita, andate in pace", mosse, tra le fila del popolo, un leggero brusio. Il prete chiuse la preziosa Bibbia ed indossò un alto copricapo color oro, simile nella forma a quello utilizzato dai pastori dell’Alto Ticino in occasione della transumanza. Scese dall’altare realizzato in marmo e si mise alla testa della compagine. Ognuno sentiva di avere dentro di se la propria missione. Fu così che il sacerdote diede l’ordine di sollevare la statua. "Che la discesa all’acqua abbia inizio", dichiarò. I portantini posero ognuno la spalla, in base alla propria posizione sotto il sostegno ligneo della statua e, dopo l’urlo del capofila, l’alzarono di scatto. Tutti insieme, nel medesimo momento, all’identica velocità d’ascesa. Lo spettacolo del santo in posa dominante sulle teste dei fedeli strappò ad alcuni un’espressione di stupore ad altri un nodo in gola, che gli rese impossibile esprimere qualsivoglia emozione. Il nuovo corteo prese a muoversi percorrendo lentamente la navata centrale e giungendo fin sotto il portale della chiesa. Il sagrato, ora deserto e silenzioso, sembrava godere di una soprannaturale sovranità e sono sicuro che così apparve a coloro che erano alla testa della processione. Aspettai che tutti lasciassero lo spazio antistante la chiesa e mi collocai al centro della piazza ad ammirare la facciata del tempio. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fosse semplice, ma bella. La pressante nebbia oscurava la mia mente e pian piano mi avvolse interamente. Presi a volteggiare in aria e a perdere il controllo del mio corpo. Un lampo, intravisto in lontananza nonostante la foschia, mi permise di accorgermi di quello che stava accadendo. Voltai le spalle al tempio, non prima di aver imitato il gesto, visto fare da tutti gli altri prima d’allontanarsi…nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…e scesi verso il mare per riallacciarmi al gruppo. Stavolta le gambe sembrava non avessero nessun’intenzione di muoversi come io desiderassi. Dentro di me c’era una sensazione di spossatezza, dovuta di certo alle corse e alle rincorse delle ore precedenti. In tutti quei mesi passati lì, Carl, percorsi mille volte il percorso che portava all’oceano ed ogni volta lo feci in modo completamente diverso dall’altro. Volavo, pazzo di gioia, mano nella mano della mia amata oppure correvo rincorrendo un’ansimante capra selvatica oppure strascicavo le ciabatte quando ero solo e malinconico. Dall’alto del tavolato intravidi la spiaggia illuminata dalla luce delle fiaccole, il cui fuoco pareva volesse spingere la statua del santo in direzione dell’orizzonte, tanto il vento spirasse. Alle mie spalle i fulmini tendevano sempre più ad avvicinarsi e quella che pochi minuti fa era una moderata brezza di terra, stava per tramutarsi in un forte vento di levante. Mi fermai per osservare la scena da sopra il capo, proteso al mare. Notai, fra la gente, una certa fretta di disormeggiare la barca per il viaggio, in previsione di un violento temporale. La statua, ornata di ghirlande di fiori intrecciate con vecchie reti da pesca, fu sistemata al centro dell’imbarcazione e legata con cime robuste per evitare, presumo, che si ribaltasse durante la lunga navigazione. Per il momento l’oceano non sembrava ancora cogliere l’influenza del vento, la risacca era, dall’alto, apparente. I pescatori, finalmente, tolsero gli ormeggi e con estrema lentezza il simulacro si allontanò dalla costa. Le torce furono spente e le persone si sparpagliarono, prendendo posto sull’arenile in attesa del ritorno dalla "grande pesca". Ricominciai a camminare, pigramente, e raggiunsi la spiaggia, non senza esitazione. Era buio, la luna, appena percettibile su nel cielo, mostrava meno di mezza faccia mentre le fiaccole emettevano un denso fumo. Mi accomodai sulla sabbia. Vidi muoversi in mia direzione una sagoma nera. Un uomo, vestito da pescatore. Era Antonio. Si mise davanti a me, in piedi e subito dopo si sedette al mio fianco. Restammo, per qualche secondo, taciturni. Poi Antonio iniziò a parlare sentendosi per primo le parole in bocca. "Ha già doppiato il faro, guarda, ormai va dritto verso occidente!", mi disse. Proprio oltre il promontorio, che chiudeva ad ovest la spiaggia, c’era una struttura in muratura bianca, con al centro un vecchio faro dalla cupola rossa. La luce ad intermittenza, che annunciava ai naviganti il punto in cui il mare terminava e la terra cominciava, s’intravedeva appena dalla nostra posizione. "Pensi che sarà un lungo viaggio?", chiesi ad Antonio senza guardarlo in faccia. "Sei solo all’inizio, amico mio", rispose lui. Rimasi in silenzio, con un nodo alla gola e la voce strozzata. "Ricordo ancora il giorno in cui hai messo piede nella locanda", e poi, "mi chiedevi se ci fosse una stanza libera per dormire e non riuscivi ad alzare lo sguardo da terra, quasi ti avessero incollato il mento al petto". "Fu un duro istante della mia vita, Antonio. Mi fa piacere che notasti la condizione del mio animo. Ora continua. Te ne prego", dissi sussurrando. "Penso che tu scappassi da qualcosa o da qualcuno, sai, ma non me ne stupii. Chi è che non si è mai nascosto, almeno una volta, nella propria vita?", continuò Antonio senza pause. "Fu la morte suicida del mio migliore amico a farmi fuggire da una situazione difficile, nella quale mi sono per molto tempo sentito colpevole ", affermai sincero e sicuro di quello che stavo dicendo. "Poi è arrivata quella ragazza. Ricordi? Forse tu non l’hai notato, forse eri troppo concentrato sui lineamenti del suo candido viso", si fermò un istante per fissarmi con un sorriso appena delineato, poi continuò, "sono sicuro, come lo sono di chiamarmi Antonio, che quell’espressione un pò sognatrice un pò malinconica fosse identica alla tua." "Oh Antonio, che gioia fu il suo arrivo qui! Che momenti sublimi ho passato, durante questi due mesi, con lei. Nel momento esatto in cui l’abbracciavo, speravo che il tempo si fermasse e che una forza divina ci costringesse per un infinito istante in quella posizione. Non immaginavo che la mia vita potesse prendere una direzione sbagliata e che i miei pensieri potessero essere influenzati da situazioni infelici.", conclusi sospirando un poco. "Amico mio, perché non vai da lei? Perché sei qui a parlare con me, quando potresti costringere le ore e i minuti a fermarsi sul vostro agognato abbraccio?" Antonio parlava come un delicato poeta. Usava toni romantici e ragionava senza malizia alcuna. Avrei voluto essere come lui. Avrei voluto che tutto il mondo fosse come lui. Lo abbracciai fortemente, gli diedi un intenso bacio sulla guancia e lo salutai con un definitivo addio. Le fiaccole si spensero del tutto ai primi cenni di pioggia. Il temporale, fenomeno per unico spettatore, gettò su di me tutta la sua rabbia. Arrancai verso la riva cercando di intravedere una luce dal mare. Mi tolsi le scarpe ed entrai in acqua, bagnandomi fino alle ginocchia. La spiaggia era ormai deserta e le persone se n’erano tornate nelle rispettive case. Mi voltai verso l’arenile e finalmente mi resi conto che la barca non sarebbe più tornata dal suo estremo ed ultimo viaggio.         9 Terminata la lunga e difficile narrazione, il Piffa si avvicinò al suo interlocutore intuendo volesse porgli delle domande. Carl, che per tutto il tempo trascorso nell’atelier mai distolse lo sguardo verso colui che lo accolse, si avvicinò al corno e lo sfiorò appena con le dita. Ascoltò ogni parola del Piffa con estrema concentrazione, senza mai interromperlo per non rischiare di spezzare il senso della storia. Solo ora percepì che poteva permettersi di penetrare nel racconto, ponendo una domanda. "E’ quindi lei la modella del dipinto?", chiese Carl. I due si girarono per guardarla e si accorsero che il colore, prima vivace e carico di potenza vitale, era colato in terra, lasciando una tela completamente bianca. Venne istintivo ad entrambi avvicinarsi alla tela. Solo dopo un attento esame si accorsero che la vernice non era scomparsa del tutto dal quadro, ma aveva lasciato intatta la silouette della donna. Carl prese, finalmente, la mano del Piffa. La strinse con sincera emozione come per salutarlo. Dal suo volto trasparì il desiderio di rincontrare colui che gli diede ospitalità. Il Piffa, per non smentirsi, capì tutto ciò e contraccambiò la stretta con una presa altrettanto tenera e spontanea. Intuì, pure, l’imbarazzo del suo ospite nel sentirsi obbligato a tenere un legame con lui. Confuse rispetto con cortesia, forse, ma non poté immaginare le parole con cui Carl si defilò la quella situazione. "Un lungo viaggio mi ha portato fin qui. Ho percorso forse seicento, forse ottocento chilometri e alla fine vi ho trovato. Ho chiesto alle persone che vivono qui intorno dove potessi rintracciare colui che vive nella vecchia villa sulla vallata. Nessuno mi ha saputo indicare con precisione dove fosse il posto, nonostante tutti conoscessero la persona che vi abita. Ho percorso a piedi la distanza fra il paese e un immaginabile e presunto luogo in cui pensai lei potesse vivere. Ho scrutato con perizia le facciate delle ville che mi lasciavo sulla destra. Ho incrociato dei passanti e ho chiesto invano anche a loro di aiutarmi. Tutto mi appariva sempre più vacuo ed incerto. Allora ho pensato a come potesse essere la casa di un artista, ho immaginato dove potesse vivere un uomo solo e depresso, dove si fosse rifugiata la persona che ho sempre desiderato incontrare. Una villa a due piani attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e notai un rilievo sulla facciata. Capre. Nel giardino viveva un gatto e zampillava una fontana. Sono arrivato, pensai." Carl s’interruppe un istante per l’emozione e poi terminò dicendo, "Qui vive l’uomo che ha reso possibile il susseguirsi delle stagioni, colui che mi ha dato la possibilità di rinascere e ricrescere dopo essere già nato e cresciuto". Carl scese le scale Ormai mangiate dai tarli, Unici padroni del suo mondo… Uscì dall’atelier e senza guardarsi attorno sparì per sempre… La villa tornò quella di tutti i giorni…carica di significati e ricordi… Così come lei la lasciò quando partì…per rifugiarsi in sé stessa…nella sua patologica indecisione… Mani lunghe contro occhi profondi…dita affilate contro sguardi fissi…spalle strette…braccia magre… Pose…eleganti ed immobili…un solo attimo di felicità…   Dipinse e poi voltò la tela alla parete!       La lettera di lei   Carissimo, t’invio mie notizie da questa che è la tana dove il sole viene a riposarsi, sperando ti siano gradite. Qui le giornate trascorrono lente…scommetto ti sarebbe piaciuto scoprire cosa si nasconde tra il rintocco delle 12.45 e suo fratello delle 12.46. Non il tempo dei grandi orologi vittoriani, delle lancette come lame che sezionano con matematica certezza sorrisi, sbadigli, baci, languide occhiate e che fieri troneggiano in vetuste stazioni europee colpiti da lampi di occhi frettolosi. Non il tempo delle mamme che richiamano i loro figli da lontane finestre assolate, distogliendoli dai propri giochi. Non il tempo di ombre, di bastoncini infilati nella sabbia. Non il tempo di mille congetture inventate al rientro a casa da una notte da nascondere. Nemmeno il tempo che la tua mano impiegava a decifrare in uno schizzo il riflesso delle mie forme sulla retina dei tuoi occhi. Non il tempo di un ultimo assonnato bacio, mentre le prime luci della città si risvegliavano. Non il ritmo assordante della musica nelle nostre surreali serate. Ma le onde del mare! Hai idea di quante riescano a spiaggiare in quel minuto? Cerco il tuo viso nella memoria per rendere più reali le parole. Scavo nell’oblio. Provo a liberare il tuo volto, nascosto da metri di silenzi e d’indifferenza, lo spolvero da quegli ultimi granelli di rancore e mi appare, labbra sottili, sorriso, occhi verdi e sguardo fisso; la stessa fissità delle rocce che si scontrano con il perenne, impetuoso infrangersi. Finalmente ti ho ritrovato. Rivedo la notte esausta dell’arrivo alla locanda con mia madre e nient’altro che il desiderio di lasciarmi scorrere da un docile vento purificatore, di abbandonare alla deriva il mio passato per vederlo sbiadire in lontananza, senza rimpianti, come ci si lascia sfuggire il sogno della notte prima. Tu, il tuo nudo corpo in piedi, fisso contro la luce delle lanterne, come se nessuno avesse potuto smuoverti dalle tue verità, da ciò che stavi cercando con la naturalezza e la forza della tua innocenza. Ricordo che i tuoi occhi non si soffermarono curiosi su di me, né mi cercarono… e come un’ombra mi abbandonai al mio docile vento. "Non ti cercai", furono le tue parole, poi, quello che non mi dicesti, quello che mi lasciasti immaginare. Silenzio. Quella notte, un’intera notte passata su quelle scale tra mura di pietra strette, fresche di colore e di ombre di lampade a petrolio, tra vasi profumati di primavera che facevano da culla ai nostri pensieri, tra i passi stanchi di quella gente, che trascinava la propria vita su scarpette di corda, tenute insieme da un pensiero, tra i loro volti, che il tempo aveva inciso con la precisione di un maestro artigiano. Mi persi in quelle crepe, profonde quanto la storia che raccontavano. Quelle ore le passammo in silenzio, una nell’altro a guardare lo spettacolo della vita compiersi davanti a noi. La gatta nera, Pepe si chiamava mi pare, ti ricordi, aveva scelto proprio quella notte per svelarci il suo mistero. Le rimanemmo accanto, incantati da quei piccoli mostri che uscivano ad inspirare la loro prima aria, trasformandola in dolci mugolii. Occhietti pieni di sonno, pelo bagnato… Luci, colori, forme, che si creavano… Un nuovo inizio E il silenzio Il tempo, poi, per noi passò veloce, ci lasciammo sommergere dall’immagine riflessa negli occhi dell’altro, dalle fantasie, dalle follie, e come due bambini non ci rendemmo conto che era arrivata l’ora di cena e che avremmo dovuto interrompere quel gioco. Forse è stato meglio così. Una fanciullesca inconsapevolezza ci condusse al nostro ultimo istante e nemmeno allora volemmo credere a quello che stava accadendo. E il sogno esplose come una bolla di sapone all’apparire della luce. Non saremmo riusciti a stancarci di quel gioco e io non potevo più restare immobile ad osservare quello che stavamo diventando, a lasciarmi trascinare da quelle mareggiate sterili. Non potevo. E come un Ulisse mai stanco di scoprire, dimenticai di salutare Penelope ma non quell’Itaca che aveva l’odore delle mille case che ho sentito mie, di mattini caffè bollente, incenso e risate cristalline, di sigarette come montagne da scalare in una notte noiosa, di notti sudate d’amore, del manto bagnato di Click dopo corse pazze sotto la pioggia di cieli grigi. Una nuova scoperta, un nuovo sogno da inseguire, volti che illuminano la fantasia e per questi decidersi a lanciare un’ancora in se stessi per rimanere ormeggiati solo a quel mondo, mentre tutto il resto scorre accanto, come un film la cui trama non è certo un segreto. Hai ragione… Nemmeno due righe…. Nemmeno il tempo di lasciarmi persuadere a rimanere…. Nemmeno l’ultima foto di spalle… Nemmeno un… Addio Per sempre tua. Arduino Rossi