Fiabe degli indiani d'America: Il topo e il sole (Canada)

(Testo tradotto da me e distribuito con licenza CC 3.0 Italia. Per favore, vedasi note a pié di pagina.)

Anatra Bianca e la strega

(illustrazione di George Sheringham, tratta dal sito Heritage History.com. Passaci sopra il puntatore del mouse per ingrandirla.)

Da: «Canadian Wonder Tales», 1918

libro animato

Tanto, tanto tempo prima dell'arrivo in Canada dell'uomo bianco, quando gli animali dominavano ancora sulla terra, un bambino e sua sorella vivevano da soli nella prateria canadese; i loro genitori erano morti quand'erano ancora molto piccoli, sicché, i due ragazzi, non avendo parenti, dovettero cominciare presto a badare a loro stessi. Abitavano isolati a parecchie miglia di distanza da altre tribù e non avevano neppure mai conosciuto altre persone al di fuori dei loro genitori: vivevano tutti quanti molto lontano. Il bambino era un fanciullo molto piccolo, mentre la sorella era una ragazza grande e forte: ella da sola doveva mandare avanti la casa, procurare cibo per tutti e due e prendersi cura del fratellino. Per questo, se lo portava sempre dietro ovunque andasse: in questo modo lo proteggeva dai pericoli. Gli costruì un arco e un certo numero di frecce con cui giocare.

Un giorno d'inverno si recò nella foresta a far legna per il fuoco e portò il fratellino con sé. Gli raccomandò di rimanere in disparte mentre lei sarebbe andava più avanti; gli disse: «Se starai bene attento, tra poco vedrai passare di qui uno stormo di uccelli migratori. Uccidine uno e portalo a casa.» La pianura era tutta ricoperta di neve, e molti di quegli uccelli volavano in cerca di cibo, e il ragazzino cercò di prenderne qualcuno, ma non ebbe buona mira e così non riuscì a colpirli. Si vergognò tantissimo per aver fallito il colpo, ma la sorella gli disse: «Non scoraggiarti, avrai più fortuna la prossima volta.»

Il giorno seguente la fanciulla portò di nuovo con sé il fratellino nella foresta mentre lei andava a far legna; lo lasciò nello stesso punto in cui si era nascosto il giorno prima. Di nuovo vennero gli uccelli, alla ricerca di cibo. Il fanciullo scagliò parecchie frecce, e alla fine riuscì a ucciderne uno; quando la sorella tornò, le mostrò l'uccello, e, soddisfatto del successo ottenuto, disse: «Proverò a prenderne uno ogni giorno: tu li spiumerai e quando avremo abbastanza pelli io potrò farmi una pelliccia.» E la sorella acconsentì. Ogni giorno il ragazzino usciva con sua sorella e aspettava il passaggio degli uccelli migratori, e ogni giorno ne ammazzava uno e lo portava a casa. Cominciarono ad estrarre le pelli e le mettevano a seccare, ed essendo ancora molto piccolo, ben presto ne ebbero a disposizione a sufficienza. Poche pelli d'uccello bastarono per fabbricare la pelliccia: la sorella le cucì insieme, così il fratellino poté presto indossarla. E ne andava molto fiero.

Un giorno disse alla sorella: «Sorellina, noi due siamo soli al mondo, e non abbiamo mai visto altri esseri umani al di fuori di nostro padre e nostra madre. Non sai se al mondo esistono altre persone?» E la sorella gli rispose che aveva sentito dire dalla loro mamma che a est delle praterie c'erano altre tribù, e che, in più, c'erano dei parenti verso ovest, molto lontano, oltre le colline. Il bambino disse allora alla sorella: «Voglio andare a conoscere i parenti di mia madre ovunque essi si trovino.» Così, un giorno, mentre sua sorella era fuori, si mise indosso la pelliccia d'uccello, prese arco e frecce e partì alla ricerca dei parenti materni. Su al nord era già primavera, e il sole aveva ormai sciolto la neve; sul sentiero scorrevano piccoli rigagnoli e i primi ciuffi d'erba erano già spuntati dal terreno. La terra era umide e tenera, faceva caldo, e una soffice brezza soffiava sulla vallata. Il fanciullo camminò per molto tempo, e quando il sole fu alto nel cielo egli cominciò a sentirsi già molto stanco. In fondo, era ancora molto piccolo. Trovò una collinetta e si fermò a riposare, e subito si addormentò, e mentre dormiva, i raggi del sole presero a picchiare forte; faceva così caldo che la sua pelliccia cominciò a deteriorarsi, finché a forza di ritirarsi per la gran calura, non ne restò quasi nulla. Ed essendo ormai troppo stretta, quando il bimbo si svegliò e si stiracchiò, s'accorse che ormai era completamente logora, e s'infuriò con il sole per avergliela rovinata. Allora minacciò il sole dicendogli: «Mi vendicherò di te, e non pensare che sei troppo in alto per sfuggirmi! Io ti punirò per quello che mi hai fatto.» Detto questo, giunse alla conclusione che senza la pelliccia non poteva più proseguire il cammino, e quella stessa sera fece dietro front e se ne ritornò a casa.

Tornato che fu a casa, mostrò la pelliccia rovinata alla sorella. Era molto triste, e per intere settimane non toccò quasi cibo, e tutti i discorsi che faceva riguardavano sempre lo stesso argomento: il sole, e ogni volta ne parlava aspramente. La sorellina tentò di confortarlo, dicendogli che altri uccelli migratori avrebbero di nuovo volato verso sud l'inverno seguente, e che quindi avrebbe potuto cacciarne altri e cucire una nuova pelliccia, ma egli fu inconsolabile. All'improvviso si ridestò dal suo torpore e disse di voler intrappolare il sole, e chiese a sua sorella di fargli una trappola; lei gliene ricavò una con del cuoio di bufalo, ma il bambino disse che non andava bene. Allora si tagliò un po' dei suoi lunghi capelli neri e con essi intrecciò un cappio, e il bimbo fu soddisfatto, dopodiché partì per prendere al cappio il sole. Viaggiò per molti giorni fino a che giunse alla Grande Fonte ad est. A nord del Paese era estate, e il sole si levava presto. Il fanciullo piazzò la trappola proprio nel punto esatto in cui avrebbe toccato terra uscendo dal mare all'alba, e rimase di vedetta a breve distanza, e, come previsto, all'alba del mattino dopo, appena il sole emerse dalle acque e toccò terra, rimase impigliato nella trappola ed essendo tenuto ben stretto, non fu in grado di sorgere e rimase bloccato a terra. Il fanciullo si compiacque assai del suo successo e disse: «Ecco, ho punito il sole per avermi rovinato la pelliccia.» Quel giorno tutto il mondo rimase nell'oscurità, e ciò causò gravi affanni e disorientamenti ai poveri animali della terra, che non capivano più che cosa stesse accadendo; gli uccelli si ritirarono nei nidi, e soltanto il gufo venne fuori in cerca di cibo.

Alla fine gli animali di terra e di aria indirono un'assemblea per decidere il da farsi; scoprirono che il sole era intrappolato a terra, così decisero di mandare qualcuno a tagliare la corda che lo teneva legato. Si trattava di una missione molto rischiosa, poiché l'incandescente calore che emanava il sole avrebbe anche potuto uccidere chiunque gli si avvicinasse; così, tirarono a sorte per vedere a chi toccava andare, e la scelta cadde sul picchio. Il picchio andò e cominciò a picchiettare la corda con il becco; andò avanti a picchiettare per un lungo periodo, ma ad un certo punto il suo capo non ce la fece più a sopportare quelle temperature incandescenti, e dovette rinunciare a terminare la missione. Il povero picchio abbandonò il campo, e da allora ha la testa rossa, e questo perché il sole picchiò forte su di lui mentre stava cercando di liberarlo.

In seguito, gli animali invocarono un volontario che si prestasse a tentare la missione, e siccome a quei tempi il topo era l'animale più grande e forte della terra, si offrì di partire, convinto che fosse suo dovere mettere a disposizione la sua grande forza fisica per portare a termine quell'impresa tanto pericolosa. Partì, e appena giunto sul posto, cominciò a rodere la corda con i denti, ma quella era molto rigida e non risultò facile tranciarla. In più, il calore era fortissimo, e il povero topo sarebbe corso via volentieri, ma temeva che gli altri avessero riso se persino uno grande e grosso come lui si fosse lasciato sconfiggere, e, quindi, siccome si vergognava di rinunciare, insistette. Rimase al suo posto, e cominciò a segare i fili uno per uno. Di lì a poco il suo dorso cominciò a fare fumo e a sbruciacchiare, ma tenne duro e resistette. Ma subito cominciò a squagliarsi, finché tutta la parte superiore del suo corpo fu ridotta in cenere. Ma egli non si arrese, e continuò a segare un filo dopo l'altro, finché giunse all'ultimo filo, e finalmente la corda si spezzò, e il sole fu libero di sorgere e sulla terra tornò la luce del giorno. Tutti gli animali acclamarono e applaudirono la grande impresa del topo, ma il poveretto si era quasi annientato durante il lavoro, si era ormai ridotto quasi del tutto e il suo dorso incenerito. E da allora si dice che il topo è diventato l'animaletto più piccolo del pianeta, e che il suo dorso è diventato grigio come la cenere, daquell'antica volta in cui si sbruciacchiò mentre tentava di liberare il sole dalla sua trappola.

(Traduzione dall'inglese di Valentina Vetere.)

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(Documento creato il 23/11/13)