Fiabe Classiche - M.me D'Aulnoy: La Gatta Bianca (pagina II)

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Questo second'anno passò, senza addarsene, come il primo. Il Principe non aveva tempo di desiderare un oggetto, che le solite mani, sempre pronte, glielo portavano subito: sia che si trattasse di libri, di gemme, di quadri, di medaglie antiche: insomma egli non doveva far altro che dire: "voglio il tal bigiù, che è nel gabinetto intimo del Mogol o del Re di Persia, o la tale statua di Corinto o di Grecia" che subito vedeva comparirsi davanti ciò che desiderava, senza sapere né chi gliel'avesse portata, né di dove venisse. Ecco una virtù magica, che ha le sue attrattive e che, non foss'altro per passatempo, ci farebbe nascere la voglia di diventare i padroni dei più bei tesori della terra. Gatta Bianca, che non perdeva mai d'occhio gl'interessi del Principe, lo avvertì che il tempo della sua partenza si avvicinava e che poteva stare tranquillo in quanto alla pezza di tela tanto desiderata, perché essa gliene aveva tessuta una maravigliosa: aggiungendo che questa volta voleva regalargli un equipaggio degno di lui. E senza dargli tempo di rispondere, l'obbligò a guardar giù nel cortile del castello. E lì, infatti, vi era una carrozza scoperta, tutta d'oro smaltato, color fuoco, con mille imprese galanti dipinte sopra, che facevano piacere agli occhi e alla mente. V'erano attaccati quattro per quattro, dodici cavalli bianchi come la neve, carichi di gualdrappe di velluto rosso fiammante, ricamate a diamanti e guarnite di fibbie e di piastrelle d'oro. La carrozza era foderata dentro colla stessa magnificenza ed aveva un seguito d'altre cento carrozze a otto cavalli, tutte piene di signori di grande apparenza e splendidamente vestiti. V'era di scorta un reggimento di mille guardie del corpo, le cui uniformi erano così coperte di ricami e di alamari, che il panno non si distingueva più: e la cosa singolare era questa: che il ritratto della Gatta Bianca si vedeva da per tutto, sugli stemmi della carrozza, sull'uniforme delle guardie, e perfino attaccato con un nastro all'occhiello dell'abito dei cortigiani, come la insegna di un nuovo ordine cavalleresco, di cui essa gli avesse onorati. "Ora parti pure", diss'ella al Principe, "e presentati al Re tuo padre in codest'arnese abbagliante; e che la tua magnificenza da gran signore lo metta in suggezione tanto da non aver cuore di ricusarti il trono che ti sei meritato. Eccoti una noce: guarda bene di non schiacciarla, finché non sarai alla presenza di lui: dentro ci troverai la pezza di tela, che m'hai domandata." "Graziosa Bianchina", egli rispose, "vi giuro che sono talmente preso dalle vostre gentilezze per me, che, se foste contenta, preferirei di passar la mia vita con voi, a tutte le grandezzate che mi aspettano fuori di qui." "Figlio di Re", ella soggiunse, "io credo alla bontà del tuo cuore, merce rara fra i Principi: perché essi vogliono essere amati da tutti, e non amar nessuno. Ma tu sei l'eccezione della regola. Io ti tengo conto del bene che dimostri di volere a una Gattina Bianca, la quale in fondo in fondo, non è buona ad altro che a prender topi."

Il Principe le baciò la zampetta e partì. Se già non si sapesse come il cavallo di legno gli avesse fatto fare duemila miglia in meno di quarantott'ore, ora si stenterebbe a credere la gran furia che messe per arrivare in tempo. Se non che la stessa potenza che animava il cavallo di legno, spronò talmente anche gli altri, che non restarono per la strada più di ventiquattr'ore. Non fecero neppure una fermata, finché non furono giunti dal Re, dove già i due fratelli maggiori si trovavano: i quali, non vedendo arrivare il fratello minore, gongolavano del suo ritardo e bisbigliavano fra loro sottovoce: "Questa è una bazza per noi: o è morto o è malato: e così avremo un rivale di meno, nella successione al trono". Senza perder tempo spiegarono le loro tele, le quali, a dir la verità, erano tanto fini, da passar dalla cruna di un ago grosso: ma per in quanto alla cruna di un ago sottile, era inutile parlarne; e il Re, tutto contento di aver trovato questo attaccagnolo, mostrò loro l'ago che egli aveva prescelto e che per ordine suo i magistrati avevano recato dal Tesoro della città, dov'era stato gelosamente custodito. Nacque un gran diverbio: e tutti vollero dire la sua. Gli amici de' Principi, e segnatamente quelli del maggiore, la cui tela senza dubbio era la più bella, sostenevano che il Re aveva messo fuori una gretola, dove c'era mescolata molta dose di furberia e di malafede. Alla fine, per troncare ogni pettegolezzo, si sentì per la città il rumore allegro e cadenzato di una fanfara di trombe, timballi e clarinetti: era il nostro Principe, che arrivava col suo splendido corteggio. Il Re e i suoi due figli fecero tanto d'occhio alla vista di uno spettacolo così sorprendente. Appena ebbe salutato rispettosamente il padre suo e abbracciati i fratelli, cavò fuori da una scatola, tutta incrostata di rubini, la noce: e la schiacciò. Egli si aspettava di trovarci la pezza di tela, tanto decantata: ma invece c'era una nocciuola; schiacciò anche questa, e rimase stupito di trovarci dentro un nocciolo di ciliegia. Tutti si guardarono in viso: il Re se la rideva sotto i baffi e si divertiva alle spalle del figlio, il quale era stato tanto baccello da credere di poter portare una pezza di tela dentro a una noce; ma perché non ci doveva credere, quando già gli era stato dato un canino che entrava tutto in una ghianda? Egli schiacciò anche il nocciolo di ciliegia, il quale era tutto pieno della sua mandorlina. Allora cominciò per la sala un gran bisbiglìo: e non si sentiva altro che questo ritornello: "Il Principe cadetto l'hanno preso a godere!...". Egli non rispose nulla alle insolenti freddure dei cortigiani. Aprì in mezzo la mandorlina, e ci trovò un chicco di miglio. Oh! allora poi, per dir la verità, cominciò anch'esso a dubitare e masticò fra i denti, "Ah! Gatta Bianca, Gatta Bianca, tu me l'hai fatta!..." In questo punto sentì sulla mano un'unghiata di gatto, che lo graffiò così bene da fargli uscire il sangue. Egli non sapeva se quell'unghiata fosse per dargli coraggio o per consigliarlo a smettere: a ogni modo aprì il chicco di miglio, e lo stupore di tutti non fu piccolo davvero quando ne tirò fuori una pezza di tela di mille metri così meravigliosa, che c'erano dipinti sopra ogni maniera d'uccelli, di pesci, di animali, con gli alberi, i frutti e le piante della terra, gli scogli, le rarità e le conchiglie del mare, il sole, la luna, le stelle, gli astri e i pianeti del cielo. E c'erano anche i ritratti dei Re e dei Sovrani che regnavano allora nel mondo: e quelli delle loro mogli, dei figliuoli e di tutti i loro sudditi, senza che vi fossero dimenticati i più infimi, fra gli straccioni e gli sbarazzini di strada. Ciascuno, nel suo stato, rappresentava il personaggio che doveva rappresentare, ed era vestito alla foggia del suo paese.

Quando il Re ebbe visto questa pezza di tela, si fece bianco in viso, come s'era fatto rosso il Principe, nel mentre che la cercava. Tanto il Re che i due Principi maggiori serbavano un cupo silenzio, sebbene a più riprese si trovassero forzati a dire che in tutto quanto il mondo non c'era un'altra cosa, che potesse agguagliarsi alla bellezza e alla rarità di questa tela. Il Re lasciò andare un gran sospiro e voltandosi a' suoi figli, disse loro: "Non potete figurarvi la mia consolazione, nel vedere la deferenza che avete per me: io desidero dunque che vi mettiate a una novella prova. Andate a viaggiare ancora un anno, e colui che in capo all'anno menerà seco la più bella fanciulla, quello la sposerà e sarà incoronato Re il giorno stesso delle sue nozze; perché, in fin dei conti, è una necessità che il mio successore abbia moglie: e faccio giuro e prometto che questa volta sarà l'ultima e non manderò più per le lunghe la ricompensa promessa". Questa qui, a guardarla bene, era una ingiustizia bella e buona a carico del nostro Principe. Il cagnolino e la pezza di tela, invece di un regno, ne meritavano dieci; ma il Principe aveva un carattere così ben fatto, che non volle mettersi in urto col padre suo: e senza rifiatare, rimontò in carrozza e via. Il suo corteggio lo seguì, ed egli tornò dalla sua cara Gatta Bianca. Ella sapeva il giorno e il minuto che doveva arrivare; per tutta la strada c'era la fiorita e mille bracieri con sostanze odorose fumavano fuori e dentro al castello. Essa se ne stava seduta sopra un tappeto di Persia, sotto un baldacchino di broccato d'oro in una galleria, dalla quale poteva vederlo ritornare. Fu ricevuto dalle solite mani, che l'avevano sempre servito. Tutti i gatti si arrampicarono su per le grondaie, per dargli il ben tornato, con un miagolio da straziare gli orecchi.

"Ebbene, figlio di Re", ella gli disse, "eccoti tornato qui, e senza corona." "Signora", egli rispose, "la vostra buona grazia mi aveva messo in caso di guadagnarmela: ma ho capito che il Re avrebbe più dispiacere a disfarsene di quello che io avessi gusto a possederla." "Non importa", ella soggiunse, "non bisogna trascurar nulla per meritarla; io ti aiuterò anche questa volta, e poiché bisogna che tu meni alla corte di tuo padre una bella fanciulla, penserò io a cercartene una che ti faccia vincere il premio: intanto divertiamoci, ed è per questo che ho ordinato un combattimento navale fra i miei gatti e i terribili topi del paese. I miei gatti si troveranno un po' impappinati nei loro movimenti, perché hanno paura dell'acqua; ma senza di questo, essi avrebbero troppo il disopra: e, per quanto si può, bisogna cercare di bilanciare le forze." Il Principe ammirò la prudenza della signora Micina: le fece i suoi mirallegri e andò con essa sopra una gran terrazza che dava sul mare, I vascelli dei gatti consistevano in grandi pezzi di sughero, sui quali vogavano abbastanza comodamente. I topi avevan riuniti e legati insieme molti gusci d'ovo e questi erano le loro navi. Il combattimento fu accanito e crudele: i topi si buttavano nell'acqua e nuotavano con più maestria dei gatti: e così ben più di venti volte si trovarono a essere vincitori e vinti: ma Minagorbio, ammiraglio della flotta gattesca, ridusse l'armata topina all'ultima disperazione, e si mangiò con molto gusto il generale della flotta nemica, che era un vecchio topo di grande esperienza, il quale aveva fatto per tre volte il giro del mondo sopra grossi vascelli dove egli non era né capitano, né marinaio, ma semplice leccalardo. Gatta Bianca non volle che quei poveri disgraziati fossero interamente distrutti. Essa aveva politica e pensava che se in paese non ci fossero più stati né topi né sorci, i suoi sudditi sarebbero vissuti in un ozio, che poteva alla lunga diventare pericoloso.

Il Principe passò anche quest'anno, come i due precedenti, andando a caccia, alla pesca e giuocando: perché bisogna sapere che Gatta Bianca era bravissima al giuoco degli scacchi. Egli, di tanto in tanto, non poteva stare dal farle delle domande incalzanti, per arrivare a scuoprire per qual miracolo ella avesse il dono di poter parlare. E avrebbe voluto sapere se era una fata, e se fosse stata cambiata in gatta, al seguito di una metamorfosi: ma siccome non c'era caso che ella dicesse mai quello che non voleva dire, così rispondeva sempre quel tanto che voleva rispondere, e dava delle risposte tronche e senza significato, ragione per cui egli dové persuadersi che Gatta Bianca non voleva metterlo a parte del suo segreto. Non c'è una cosa che passi tanto presto, quanto i giorni felici: e se la Gatta Bianca non fosse stata lei a darsi il pensiero di tenere a mente il tempo preciso di far ritorno alla Corte, non c'è dubbio che il Principe se lo sarebbe dimenticato bene e meglio. Alla vigilia della partenza ella lo avvertì che dipendeva da lui, se avesse voluto menar seco una delle più belle principesse del mondo; che era giunta finalmente l'ora di distruggere il fatale incantesimo ordito dalle fate e che per questo bisognava che egli si risolvesse a tagliar a lei la testa e la coda, e a gettarle subito sul fuoco. "Io?", esclamò, "Bianchina! amor mio! e sarò io tanto spietato da uccidervi? Ah! vedo bene che volete mettere il mio cuore alla prova: ma siate pur certa che esso non è capace di mancare alla amicizia e alla riconoscenza che vi deve," "No, figlio di Re", ella riprese, "io non sospetto in te nemmeno l'ombra dell'ingratitudine; ti conosco troppo: ma non sta né a me né a te a regolare in questo caso i nostri destini: fai quello che ti dico e saremo felici. Sulla mia parola di gatta onorata e perbene, ti farò vedere che ti sono amica..." Al solo pensiero di dover tagliare la testa alla sua Gattina, tanto carina e graziosa, il giovane Principe sentì venirsi per due o tre volte le lacrime agli occhi. Disse tutto quel più che seppe dire di affettuoso, per essere dispensato, ma essa, intestata, rispondeva che voleva morire per le sue mani; e che questo era l'unico mezzo per impedire ai fratelli di lui d'impadronirsi della corona: insomma, insisté tanto e poi tanto, che alla fine egli tirò fuori la spada e con mano tremante tagliò la testa e la coda della sua buona amica. In quel punto stesso si trovò presente alla più bella metamorfosi che si possa immaginare. Il corpo di Gatta Bianca cominciò a ingrandire e tutt'a un tratto diventò una fanciulla: meraviglia da non potersi descrivere a parole, e unica forse al mondo. I suoi occhi rubavano i cuori, e la sua dolcezza li teneva legati: la sua figura era maestosa, l'aspetto nobile e modesto, lo spirito seducente, le maniere cortesi: e per dir tutto in una parola, ell'era al disopra di tutto ciò che vi può essere di amabile e di grazioso sulla terra. Il Principe, a vederla, rimase preso da un grande stupore: ma da uno stupore così piacevole, che credette di essere incantato. Non poteva spiccar parola: pareva che gli occhi non gli bastassero per guardarla, e la lingua legata non trovava il verso di esprimere la sua meraviglia; la quale si accrebbe di mille doppi, quand'egli vide entrare una folla straordinaria di dame e di cavalieri, colla loro brava pelle di gatto o di gatta, gettata sulle spalle, che andavano a prosternarsi ai piedi della Regina, e a darle segno della loro gioia per vederla tornata nel suo primo stato naturale. Essa li ricevé con tutta quella bontà, che rivelava l'eccellente pasta del suo cuore e del suo carattere, e dopo essersi trattenuta un poco con essi, ordinò che la lasciassero sola col Principe, al quale parlò così:

"Non vi mettete in capo, o signore, che io sia stata sempre gatta: e che la mia nascita sia oscura fra gli uomini. Mio padre era Re e padrone di sei regni. Egli amava teneramente mia madre, e la lasciava liberissima di fare tutto ciò che le passava per la mente, La passione dominante di mia madre era quella di viaggiare: per cui, sebbene incinta di me, intraprese una gita per andare a vedere una montagna, della quale aveva sentito dire cose dell'altro mondo. E mentr'era per via, le fu detto che lì in que' pressi c'era un castello di fate, il più bello fra quanti se ne conoscevano; o almeno creduto tale per una antichissima tradizione; perché non essendovi mai entrato nessuno, non potevasi giudicarne che dal di fuori: ma la cosa che si sapeva per certo era questa, che le fate avevano nel loro giardino certe frutta così delicate e saporite, come non se ne sono mangiate mai. Ecco subito che alla Regina mia madre nacque una gran voglia di assaggiarle, e si avviò verso quella parte. Giunse alla porta di questo magnifico palazzo, tutto risplendente d'oro e di azzurro: ma bussò inutilmente. Non comparve anima viva: si sarebbe detto che erano tutti morti. Quest'indugi servivano a farle crescere la voglia; sicché mandò in cerca di scale per iscavalcare i muri del giardino; e la cosa sarebbe riuscita bene, se i muri non si fossero alzati lì per lì, e senza vedere una mano che ci lavorasse. Si prese allora il ripiego di mettere le scale le une sulle altre! ma finirono di fracassarsi sotto il peso di quelli che ci salivano sopra, i quali, cadendo giù, rimanevano morti o stroppiati. La Regina era disperata. Vedeva i grandi alberi carichi di frutta, che essa credeva deliziose, e voleva cavarsene la voglia, o morire: e per questo, fece rizzare dinanzi al castello parecchie tende signorili e di gran lusso, e vi si trattenne sei settimane con tutta la sua Corte. Non dormiva né mangiava più: non faceva altro che sospirare, parlando sempre della frutta del giardino inaccessibile, finché si ammalò, senza trovare chi potesse sollevarla del suo male, perché le inesorabili fate non si fecero mai vedere, dopo che ella si era attendata in vicinanza del loro castello. Tutti i suoi uffiziali si affliggevano dimolto: non si sentivano che pianti e sospiri da tutte le parti, mentre la Regina moribonda chiedeva delle frutta a quelli che la servivano, ma non ne voleva di altra specie, all'infuori di quelle che le venivano negate. Una notte, mentre era in un mezzo dormiveglia, aprì gli occhi e svegliandosi vide una vecchiettina decrepita e brutta più del peccato, seduta in una poltrona accanto al capezzale del suo letto. Si maravigliò che le sue dame avessero lasciata passare una sconosciuta nella sua camera; quando questa le disse: «A noi ci pare che la tua Maestà sia molto indiscreta, a incaponirsi a voler mangiare per forza le nostre frutta; ma perché ci va di mezzo la tua vita preziosa, le mie sorelle e io acconsentiremo a dartene tante, quante ne potrai portare, finché starai qui: ma a un patto: al patto che tu ci faccia un regalo.» «Ah! mia buona nonna,» gridò la Regina, «chiedete e domandate! io son pronta a darvi il mio regno, il mio cuore, l'anima mia, purché mi cavi la voglia delle vostre frutta: a nessun prezzo mi parranno care.» «Noi vogliamo», diss'ella, «che tua Maestà ci dia la figlia che porti nel seno. Quando sarà nata, verremo a pigliarla e l'alleveremo noi: non c'è virtù, bellezza o sapienza, che essa non possa avere per mezzo nostro, in una parola sarà nostra figlia e noi la faremo felice: ma intendiamoci bene: la tua Maestà non potrà rivederla fino al giorno che non si sarà maritata. Se il patto ti garba, io ti guarisco subito, menandoti qui nei pomari del nostro giardino: non badare che sia notte; ci vedrai abbastanza, per iscegliere le frutta che vorrai. Se il patto non ti va, buona notte, signora Regina e scappo a letto.» «Per quanto sia dura la legge che m'imponete», rispose la Regina, «l'accetto piuttosto che morire, perché è più che certo che mi rimane appena un giorno di vita, e morendo io, la figlia mia morirebbe con me. Guaritemi, sapiente fata,» ella seguitò a dire «e non mi fate perdere nemmeno un minuto per arrivare al godimento della grazia che mi avete fatta.» La fata la toccò con una bacchettina d'oro, dicendo: «Che la tua Maestà sia libera da tutti i mali, che la tengono inchiodata nel letto». A queste parole le parve di trovarsi alleggerita da una veste di piombo, pesante e dura, che le toglieva il respiro, e che in certi punti sentiva pesarla anche di più, perché forse era lì la sede del male. Fece chiamare tutte le sue dame e disse loro, con viso sorridente, che stava benissimo, che si voleva levar subito, che finalmente le porte del castello, serrate a chiavistello, e a doppia mandata, si sarebbero aperte per lei, perché potesse mangiare le belle frutta del giardino e portarne via con sé, quante ne avesse volute.

Fra tutte quelle dame, non ce ne fu una sola la quale non sospettasse che la Regina fosse caduta in delirio, e che in quel momento sognasse a occhi aperti le frutta tanto desiderate: per cui, invece di risponderle a tono, si misero a piangere e fecero svegliare tutti i medici, perché venissero a vederla. Quest'indugio faceva inquietare la Regina, la quale domandava i suoi vestiti, e nessuno si muoveva; e la cosa andò tanto in là che finì col lasciarsi pigliare dalla bizza e diventò rossa come una ciliegia. Alcuni badavano a dire che era effetto della febbre: ma i medici, essendo finalmente arrivati, e dopo averle tastato il polso e fatte le solite cerimonie di uso, non poterono far di meno di dichiarare che era tornata in perfettissima salute. Le sue donne accortesi del granchio a secco che avevano preso per troppo zelo, cercarono di riparare al mal fatto, vestendola da capo a piedi in quattro e quattr'otto. Le chiesero perdono: tutto fu accomodato: ed essa si affrettò a seguire la vecchia fata che l'aveva aspettata fin allora. Entrò nel palazzo, dove non ci mancava nulla per essere il più bel palazzo del mondo: e voi, o signore, non penerete a crederlo", soggiunse Gatta Bianca, "quando vi avrò detto che è quello stesso, dove oggi io e voi ci troviamo. Due altre fate, un po' meno vecchie di quella che conduceva mia madre, vennero a riceverla alla porta e le fecero un'accoglienza, che pareva proprio una festa. Essa le pregò di menarla subito nel giardino e precisamente a quelle spalliere, dove avrebbe potuto trovare i frutti migliori. «Sono tutti buoni nello stesso modo,» risposero le fate, «e se non fosse che tu vuoi cavarti il gusto di coglierli colle tue mani, noi non avremmo da fare altro che chiamarli e farteli venire fin qui!» «Oh! ve ne supplico, signore mie», esclamò la Regina, «fate che io abbia la contentezza di vedere una cosa così meravigliosa e fuori dell'usuale.» La più vecchia delle due fate si pose un dito in bocca e fece tre fischi: poi gridò «albicocche, pesche, noci, prugnole, pere, poponi, uva mascadella, mele, arance, limoni, uva spina, fragole, lamponi, correte tutti al mio comando!». «Ma,» osservò la Regina, «tutte codeste frutta vengono in diverse stagioni dell'anno!» «Nei nostri orti non è così,» esse risposero, «noi abbiamo sempre ogni sorta di frutta della terra: sempre buone, sempre mature, e non vanno mai a male.». In quel frattempo le frutta arrivarono, rotolandosi, arrampicandosi le une sulle altre, senza mescolarsi e senza insudiciarsi; sicché la Regina, che si struggeva di levarsene la voglia, vi si buttò sopra, e prese le prime che le capitarono sotto mano. Non le mangiò: ma le divorò. Quando fu piena fino alla gola, pregò le fate di lasciarla andare alla spalliera, per poterle scegliere coll'occhio prima di coglierle. «Volentieri,» risposero le fate, «ma rammentate la promessa che avete fatta: ormai non c'è più tempo per tornare indietro.» «Io son così persuasa,» ella riprese a dire, «che qui da voi si faccia una vita d'oro e mi pare che questo palazzo sia tanto bello, che se non fosse per il gran bene che voglio al Re mio marito, mi metterei d'accordo per restarci anch'io: vedete dunque se è mai possibile che io possa pentirmi di quel che ho detto.»

Le fate, tutte contente da non si credere, le apersero i loro giardini e i recinti più appartati; e tanto essa ci si trovò bene, che vi si trattenne tre giorni e tre notti, senza allontanarsi di lì un minuto. Fece una gran provvista di frutta e ne colse quante ne poté cogliere: e perché sapeva che non andavano a male, ne fece caricare quattromila muli che condusse seco. Al dono delle frutta le fate vollero aggiungere quello dei corbelli e delle ceste d'oro, d'un lavoro finissimo che pareva fatto col fiato: le promisero che mi avrebbero allevata da Principessa, come io era, che mi avrebbero data un'educazione perfetta, e a suo tempo scelto uno sposo. Le dissero di più che ella sarebbe stata avvertita del giorno delle nozze, e che contavano sul sicuro che non sarebbe mancata.