Fiabe Classiche - M.me D'Aulnoy: La Gatta Bianca (pagina I)

(traduzione di Carlo Collodi da "I racconti delle fate")

la principessa davanti al re

"les Fées à la mode"

gif animata

C'era una volta un Re il quale aveva tre figli: tre pezzi di giovanotti forti e coraggiosi; ed egli si era messo paura che volessero salire sul trono prima della sua morte: tanto più, che stando a certe voci che correvano, i suoi figli cercavano dappertutto di farsi dei partigiani per impadronirsi del regno. Il Re cominciava a essere un po' in là cogli anni, ma essendo ancora verde di spirito e sano di mente, non se la sentiva punto di cedere loro un posto, occupato da lui con tanta dignità. Pensò, dunque, che il miglior partito per vivere tranquillo fosse quello di tenerli a bocca dolce a furia di promesse, che egli avrebbe saputo sempre deludere e mandare in fumo. Li chiamò nel suo gabinetto, e dopo aver parlato alla buona di varie cose, saltò fuori col dire: "Miei cari figli, voi converrete meco che la mia età avanzata non mi permette più di accudire agli affari di Stato con lo stesso impegno d'una volta; temo che i miei sudditi ne abbiano a risentire i danni, ed è per questo che ho deciso di mettere la corona sul capo a uno di voi tre. Peraltro è ben giusto che in compenso di un regalo simile, voi dobbiate cercare di compiacermi nel disegno, che oramai ho fatto, di ritirarmi in campagna. Mi pare che un canino vispo, fido, grazioso potrebbe tenermi un'ottima compagnia: così, senza stare a scegliere il figlio maggiore piuttosto del minore, io vi dichiaro che quello che di voi tre mi porterà il canino più bello, quello sarà il mio erede". I principi restarono sorpresi del capriccio del loro padre per un canino, ma i due minori vi trovarono il loro tornaconto ed accettarono con piacere la commissione di andare in cerca di un cane. Quanto al figlio maggiore, era troppo timido e troppo rispettoso per far valere i suoi diritti. Presero quindi congedo dal Re, il quale li fornì d'oro e di pietre preziose, soggiungendo che fra un anno, né più né meno, in quello stesso giorno e alla medesima ora, dovessero tornare a portargli ciascuno il suo canino. Prima di mettersi in viaggio i tre fratelli andarono a un castello, discosto appena un miglio dalla città. Menarono seco gli amici e fecero gran baldoria, giurandosi tutti e tre amicizia eterna, e restando intesi che in questa faccenda avrebbero ciascuno tirato avanti per il fatto suo, senza gelosie e rancori, e che in ogni caso il più fortunato avrebbe sempre tenuto a parte gli altri due della sua fortuna.

E così partirono, dopo aver fissato che al ritorno si sarebbero ritrovati nello stesso castello, per poi recarsi tutti insieme dal Re. Non vollero con sé nessuno, e cambiarono di nome per non essere riconosciuti. Ciascuno prese una via diversa. I due maggiori ebbero molte avventure; ma io racconterò soltanto quelle del minore. Il quale era grazioso, d'umore allegro e piacevole, una bella testa, fisonomia signorile, fattezze regolari, bei denti e moltissima destrezza in tutti quegli esercizi, che completano l'educazione di un gentiluomo. Cantava con gusto, suonava il liuto e la chitarra da incantare, maneggiava la tavolozza, era insomma un cavaliere compitissimo e di un coraggio che rasentava la temerità. Non passava giorno che non comprasse cani grandi, piccoli, levrieri, bull-dogs, da caccia, spagnuoli, barboni. Se ne aveva uno bello e ne trovava un altro più bello, lasciava il primo per tenersi l'altro: perché gli sarebbe stato impossibile, solo com'era, di menarsi dietro trenta o quarantamila cani; ed egli non voleva con sé nessuno strascico di gentiluomini o di servitori o di paggi.

Camminava e camminava, senza sapere neanche lui dove andasse, quand'ecco che una volta si trovò sorpreso dalla notte, dai tuoni e da un gran rovescio d'acqua nel mezzo d'una foresta, dove non raccapezzava più nemmeno la strada che doveva fare. Prese il primo viottolo che gli capitò fra i piedi, e dopo aver camminato un pezzo, poté scorgere un po' di luce; e da questa si figurò che, non molto lontano, ci dovesse essere qualche casa, dove avrebbe potuto mettersi al coperto fino al giorno. Guidato così da quella po' di luce che vedeva, giunse alla porta di un castello, il più magnifico che si possa immaginare. La porta era d'oro, coperta di carbonchi, il cui bagliore limpido e smagliante illuminava tutti i dintorni. E questa era la luce che il Principe aveva veduto di lontano. I muri erano di porcellana trasparente sulla quale, dipinta in colori, si vedeva la storia di tutte le fate dalla creazione del mondo in poi; né vi erano dimenticate le famose avventure di Pelle d'Asino, di Finetta, del Melarancio, di Graziosa, della Bella addormentata nel bosco, di Serpentino Verde e di cent'altri. Gli fece grandissimo piacere di riconoscervi anche il Principe Folletto, perché era suo zio all'uso di Brettagna. La pioggia e la stagione indiavolata gli levarono la voglia di trattenersi più a lungo in un luogo, dove si bagnava tutto fino all'ossa, senza contare che dove non giungeva il riflesso luminoso dei carbonchi, non ci si vedeva proprio di qui a lì. Tornò alla porta d'oro, e vide uno zampetto di capriolo attaccato in fondo a una piccola catena tutta di diamanti: e non poté di meno di restare a bocca aperta, non tanto per la magnificenza di quel cordone da campanello, quanto per la gran sicurezza colla quale vivevano in quel palazzo. "Perché", faceva egli a dire, "che ci vorrebbe per i ladri a staccare la catenella e portar via i carbonchi? Sarebbe il vero modo di diventar ricchi una volta per tutte." Tirò lo zampetto di capriolo: subito sentì suonare una campanella, che allo squillo gli parve d'oro o d'argento. Di lì a un minuto la porta si aprì, senza che egli potesse veder altro che una dozzina di mani per aria, ciascuna delle quali teneva una fiaccola accesa. A quella vista restò così intontito, che non sapeva risolversi a entrare, quando sentì altre mani, che lo spingevano per dietro, e anche con una certa tal qual violenza. Egli entrò là dentro a malincuore, e per ogni buon fine e rispetto portò la mano all'impugnatura della spada: quand'ecco, che traversando un vestibolo, tutto incrostato di porfido e di lapislazzuli, sentì due voci angeliche che cantavano così:

Delle man che vedete
Non vi prenda sospetto:
Ché sotto questo tetto
Non c'é da temer nulla.
Se non le seducenti
Grazie di un bel visino;
Caso che il vostro cuore
Non voglia rimaner schiavo d'amore.

Egli non poté immaginarsi che lo invitassero con tanta buona grazia, per fargli poi un brutto tiro: per cui, sentendosi sospinto verso una gran porta di corallo, che si aprì al suo avvicinarsi, entrò in una gran sala, tutta di madreperla; e quindi passò in altre sale ornate in mille maniere differenti e così ricche di pitture e di marmi preziosi, da farlo restare sbalordito. Migliaia e migliaia di lumi, che dal soffitto arrivavano fino a terra, illuminavano altri quartieri; anche questi pieni di lampadari, di luci a riflesso e di ventole gremite di candele. Per farla corta, era una tal maraviglia da crederla un sogno. Dopo aver traversato una fila di sessanta stanze, le mani che lo guidavano lo fecero fermare, ed esso vide una poltrona grande e molto comoda, che si accostò da sé sola al camminetto. In quel mentre il fuoco si accese: e le mani che gli sembravano bellissime, bianche, piccole, bofficette e ben proporzionate, cominciarono a spogliarlo: perché, com'ho detto poco fa, era tutto fradicio mézzo e c'era il caso di fargli prendere un'infreddatura. Gli fu presentato senza che egli vedesse alcuno, una camicia così bella, che era proprio una camicia da sposi, insieme a una veste da camera, di stoffa trapunta d'oro e ricamata di piccoli smeraldi, che formavano degli arabeschi e delle cifre. Le mani, senza corpo, gli avvicinarono una toeletta, che era una vera maraviglia: e lo pettinarono con tanta leggerezza e con tanta maestria, che rimase contentissimo. Poi lo rivestirono tutto, non coi panni di lui, ma con gli altri abiti molto più belli. Egli stava ammirando, senza fiatare, tutto quello che accadeva sotto i suoi occhi, e di tanto in tanto aveva qualche brivido di paura, che non poteva vincere a nessun costo. Quando l'ebbero incipriato, pettinato, profumato, vestito in gala, e fatto più bello d'un amore, le solite mani lo condussero in una sala magnifica per i mobili e per le dorature. In giro alle pareti si vedeva la storia dei gatti più famosi. Rodilardo appiccato pei piedi, nel Consiglio dei Topi: il Gatto cogli stivali, marchese di Carabà: il Gatto scrivano: il Gatto cambiato in donna, i Sorci mutati in gatti: il Sabbato e tutte le sue stregherie; insomma non c'era cosa più originale di questi quadri. La tavola era apparecchiata, con sopra due posate e due tovagliolini, ciascuno dei quali col suo laccetto d'oro: la dispensa faceva restare a bocca aperta per la quantità di vasi di cristallo di monte e di altre pietre preziose. Il Principe non sapeva per chi fossero quelle due posate, quando vide alcuni gatti che andavano a pigliar posto in una piccola orchestra fatta apposta per loro: uno portava un libro pieno di capperi e di note le più strane del mondo: un altro teneva in mano un quaderno arrotolato, per battere il tempo: gli altri avevano delle piccole chitarre. Tutt'a un tratto, ciascuno di essi cominciò a miagolare in diversi toni e a grattare coll'unghie le corde della chitarra. Il Principe avrebbe quasi creduto di esser capitato all'inferno, se non gli fosse parso che il palazzo fosse troppo meraviglioso per dar motivo a simili sospetti: e non potendo far altro, si tappava gli orecchi e si buttava via dalle risate, a vedere i gesti e le boccacce di quei musicanti di una razza nuova. Mentre stava pensando alle tante cose che gli erano accadute in questo castello, vide entrare una figurina non più alta di mezzo braccio. Questa specie di bambolina era coperta dalla testa ai piedi da un lungo velo di crespo nero. L'accompagnavano due gatti, anch'essi abbrunati, col mantello e la spada al fianco. E dietro a loro, un numeroso corteggio di gatti, che portavano trappole e gabbie piene di sorci e di topi. Il Principe era fuori di sé dallo stupore, e non sapeva che cosa pensare. Intanto la bambolina si avvicinò e si tolse il velo: sicché egli poté vedere la più bella gattina, fra quante ce ne furono e ce ne saranno mai. Ella appariva molto giovine e molto afflitta: e faceva un miagolìo così dolce e così carino, che andava proprio al cuore. Ella disse al Principe: "Figlio di Re, tu sei il benvenuto. La mia miagolante maestà ti vede con piacere". "Signora Gatta", disse il principe "voi siete molto buona a farmi sì cortese accoglienza; ma voi non mi avete l'aria di essere una bestiolina come tutte le altre: il dono della parola e il bel castello che possedete, ne sono una prova lampante." "Figlio di Re", riprese la Gatta, "ti prego, non mi dire dei complimenti. Io sono semplice di modi e di parole: ma ho un buon cuore. Animo!" continuò ella "si serva subito in tavola; e i musicanti tacciano, perché tanto il Principe non intende nulla di quello che dicono." "Dicono forse qualche cosa?", domandò egli. "Ma sicuro", ella soggiunse, "perché qui ci sono dei letterati, che hanno moltissimo spirito: e se resterete un poco fra noi, ve ne persuaderete facilmente." "Basta sentirvi discorrere, per crederlo subito", disse il Principe con molta galanteria, "ed è per questo, o signora, che io vi stimo una gatta veramente singolare."

Fu portata la cena: la quale era servita da quelle stesse mani, appartenenti a corpi invisibili. Si rifecero dal mettere in tavola due pasticci: uno di piccioncini e l'altro di sorci grassi come ortolani. La vista di quest'ultimo pasticcio fece perdere al Principe la voglia di assaggiare il primo; per il sospetto che tutti e due fossero stati cucinati dallo stesso cuoco, e con le medesime rigaglie: ma la gattina, vedendogli far boccuccia, indovinò la sua idea e lo accertò che la sua cucina era fatta a parte, e che poteva mangiare tranquillamente le pietanze, che gli avessero messo dinanzi, senza scrupolo di trovarci dentro o topi o sorci. Il Principe non se lo fece dire due volte, persuaso che la bella Gattina non poteva avere nessun motivo per dargli ad intendere una cosa per un'altra. E mentre mangiava gli venne fatto notare che ella aveva un piccolo ritratto in avorio, attaccato a una zampa, e gli fece specie. La pregò se avesse voluto mostrarglielo, credendo che fosse il ritratto di padron Buricchio. Ma rimase oltremodo stupito nel vedere che era un giovine così bello, da non credere che la natura n'avesse formato un altro compagno: e il ritratto somigliava tanto a lui, che se gliel'avessero dipinto apposta, non poteva esser più vero e più parlante. Ella sospirò: e facendosi anche più trista, serbò un profondo silenzio. Il Principe capì che ci doveva esser sotto qualche cosa di misterioso e di straordinario, ma non ebbe cuore di chiedere spiegazioni, per paura di far dispiacere alla Gatta e di affliggerla più che mai. Egli le parlò di tutte le novità che sapeva, e la trovò istruttissima degl'interessi delle case principesche e di tutti i fatti che accadevano nel mondo. Alzati da cena, la Gatta Bianca invitò il suo ospite a voler passare in una gran sala, dove c'era un teatro sul quale davano un balletto dodici gatti e dodici scimmie. Gli uni erano vestiti da mori, le altre da chinesi. È facile immaginarsi i salti e le capriole che facevano, e i graffi e le zampate che di tanto in tanto si scambiavano fra loro. La serata finì così. Gatta Bianca dette la buona notte al suo ospite: e le mani, che l'avevano condotto fin lì, lo ripresero e lo menarono in un quartiere, che era tutto differente da quello che aveva visto. Poteva dirsi più elegante che magnifico: ed era tappezzato, di cima in fondo, di ali di farfalle, i cui variati colori formavano mille fiori diversi. Vi erano pure delle penne di uccelli rarissimi, e che forse non si sono veduti altro che in quel luogo. I letti erano di velo, e ornati con bellissimi fiocchi di nastro; e dappertutto grandi specchi, che andavano dall'impiantito al soffitto, e messi dentro a cornici cesellate d'oro e che rappresentavano migliaia e migliaia di piccoli amorini. Il Principe entrò a letto senza fare una parola, perché era impossibile attaccare un po' di conversazione colle mani che lo servivano. Dormì poco e fu svegliato da un rumore confuso. Le mani, lì pronte, lo tirarono subito fuori del letto e gli messero addosso un vestito da caccia. Dette un'occhiata giù, nella corte del castello, e vide più di cinquecento gatti, dei quali alcuni tenevano i levrieri al guinzaglio, e gli altri suonavano il corno. Era una gran festa: Gatta Bianca andava alla caccia, e voleva che il Principe fosse della partita. Le solite mani, addette al suo servizio, gli presentarono un cavallo di legno, che correva a briglia sciolta e che sapeva andare al passo, che era uno stupore. Egli stintignava un poco a montarci sopra, dicendo che era quasi lo stesso che fargli fare la figura di cavaliere errante come Don Chisciotte: ma la sua mala voglia gli giovò poco: si trovò messo di peso sul cavallo di legno, il quale aveva una gualdrappa e una sella a ricami d'oro e di diamanti. Gatta Bianca cavalcava uno scimmiotto, il più bello e il più fiero che si potesse mai vedere; essa aveva lasciato il suo gran velo e portava in testa un berretto da amazzone, che le dava una cert'aria di spavalderia, che metteva paura a tutti i sorci del vicinato. Non c'è stata mai un'altra caccia divertente come quella: i gatti correvano più dei conigli e delle lepri: e così, quando chiappavano qualche animale, Gatta Bianca voleva che lo mangiassero dinanzi a lei, e questa cosa dava luogo a mille giuochi piacevolissimi di agilità e di destrezza. E nemmeno gli uccelli, dal canto loro, erano sicuri: perché i gattini s'arrampicavano su per gli alberi: e il bravo scimmiotto portava Gatta Bianca fin dentro ai nidi dell'Aquile, perché disponesse a piacer suo delle piccole Altezze aquiline. Finita la caccia, ella prese un corno lungo un dito, ma che mandava un suono così chiaro e sfogato, da farsi sentire benissimo alla distanza di cento miglia. Quand'ebbe fatti due o tre squilli di corno, si vide circondata da tutti i gatti del paese: alcuni arrivarono per aria, portati in cocchio: altri venivano per acqua, dentro le barche: insomma era uno spettacolo non mai veduto. Quasi tutti erano vestiti in diversi modi. Gatta Bianca, accompagnata da questo pomposo corteggio, ritornò al palazzo e pregò il Principe a venirvi anche lui. Egli gradì l'invito, sebbene tutto questo gattaio gli sapesse un po' troppo di sabbato e di stregheria, e la Gatta parlante gli paresse più strana e più inconcepibile di tutto il resto. Appena entrata nel palazzo, le portarono il suo velo nero. Cenò col Principe, il quale aveva una fame che parevano due, e mangiò per quattro. Furono portati dei liquori, che egli gustò volentieri, ma che gli fecero dimenticare, lì per lì, il canino che doveva portare al Re. Da quel momento in poi non aveva altro pensiero che stare a miagolare con Gatta Bianca: o, come chi dicesse, a tenerle buona e fidata compagnia: tutti i giorni passarono in feste piacevoli, ora alla pesca, ora alla caccia: eppoi balli, tornei e altri spassi, che lo divertivano moltissimo. Spesso e volentieri la bella Gatta faceva dei versi e delle canzonette in uno stile così appassionato, da far capire che aveva il cuore sensibile e che certe cose non si sanno dire, senza essere innamorati: ma il suo segretario, che era un vecchio soriano, aveva una mano di scritto così brutta, che sebbene le opere di lei sieno state conservate, oggi è impossibile leggerle e raccapezzarvi dentro qualche cosa.

Il Principe si era scordato di tutto, perfino del suo paese. Le solite mani, rammentate tante volte, continuavano a servirlo. Qualche volta si pentiva di non essere un gatto, per poter passare tutta la vita in così amabile compagnia "Povero me!", diceva egli a Gatta Bianca, "come sarei disperato se dovessi lasciarvi; vi amo tanto! o diventate donna, o fatemi diventare un gatto!" Ella pigliava in chiasso queste parole, e gli dava delle risposte così ambigue e sibilline, da non ricavarci un numero.

Un anno passa presto, in ispecie quando non si hanno né seccature né pensieri: e quando si sta bene di salute e ci manca il tempo per potersi annoiare. Gatta Bianca sapeva il giorno in cui egli doveva tornare a casa, e perché egli non ci pensava più, credé ben fatto ricordarglielo. "Sai tu", ella gli disse, "che ti restano tre giorni solamente, per cercare il canino tanto desiderato da tuo padre, e che i tuoi fratelli ne hanno trovati dei bellissimi?" Il Principe ritornò in sé, e maravigliandosi della sua negligenza: "Per quale incantesimo piacevole" disse "ho potuto scordarmi di una cosa, che mi stava a cuore al disopra di tutte le altre? Ce ne va della mia gloria e della mia fortuna. Dove troverò un canino, proprio come ci vuole, per guadagnare un Regno, e un cavallo così scappatore da arrivare in tempo?" E incominciò a inquietarsi e a mettersi di cattivo umore. Gatta Bianca, con una vocina carezzevole, gli disse: "Figlio di Re, non ti dare alla disperazione: io sono fra i tuoi buoni amici: puoi trattenerti qui ancora un giorno, perché sebbene da qui al tuo paese ci sieno più di duemila miglia, il bravo cavallo di legno ti ci porterà in meno di dodici ore". "Vi ringrazio, mia bella Gatta", disse il Principe, "peraltro non mi basta di tornare da mio padre, ma bisogna che gli porti anche un canino." "Tieni", gli disse Gatta Bianca, "eccoti una ghianda, dove ce ne troverai dentro uno assai più bello della stessa canicola." "Via, via, signora Gatta", disse il Principe, "Vostra Maestà si piglia giuoco di me." "Avvicina la ghianda all'orecchio", ella soggiunse, "e lo sentirai abbaiare." Esso obbedì; e sentì subito il canino che faceva: bu! bu! Il Principe saltava dalla contentezza: perché un canino, che può entrare in una ghianda, bisogna che sia piccino davvero. Egli voleva aprirla, perché si struggeva di vederlo; ma Gatta Bianca gli disse che per la strada avrebbe potuto sentir freddo e che era meglio aspettare che fosse dinanzi al Re suo padre. Il Principe la ringraziò mille volte e poi dell'altro: e gli dette un addio che veniva proprio dal cuore. "Vi giuro", egli soggiunse "che i giorni mi son passati come un lampo; volere o non volere, sento che mi dispiace a lasciarvi; e sebbene voi siate qui la sovrana, e i gatti che vi corteggiano sieno più spiritosi e galanti dei nostri, io non mi perito a invitarvi a venir via con me." La Gatta, a questa proposta, rispose con un profondo sospiro. Si lasciarono.

Il Principe arrivò il primo nel luogo, dove co' suoi fratelli era stato fissato il ritrovo. Dopo poco arrivarono anche gli altri e rimasero maravigliati nel vedere un cavallo di legno, che caracollava meglio di quelli delle scuole d'equitazione. Il Principe andò loro incontro: si abbracciarono ripetutamente e si raccontarono le avventure dei loro viaggi: ma il nostro Principe non disse tutta la verità circa a quanto gli era accaduto, e mostrò ai fratelli un canucciaccio mezzo spelacchiato, dicendo che gli era parso così grazioso, che aveva pensato di portarlo a suo padre. Per quanto si volessero bene tra fratelli e fratelli, nondimeno i due maggiori sentirono un gran piacere della cattiva scelta fatta dal minore; e perché erano a tavola, si davano di nascosto nel piede, come per dire che da lui non avevano nulla da temere. Il giorno dopo partirono tutti e tre insieme, nella medesima carrozza. I due figli maggiori del Re avevano in alcuni panieri dei canini così belli e così delicati, che pareva non si dovessero toccare, per paura di sciuparli. Il minore aveva il suo cane spelacchiato, così inzaccherato di mota, che nessuno lo voleva accosto. Appena arrivati al palazzo, tutti furono loro dintorno per dargli il ben tornato: quindi passarono nelle stanze del Re. Esso non sapeva in favore di chi decidersi, perché i due cani presentati dai suoi figli maggiori erano pari a bellezza: e già i due fratelli si disputavano il vantaggio della successione al trono, quando ecco che il Principe trovò il mezzo di metterli d'accordo, cavando fuori di tasca la ghianda, che Gatta Bianca gli aveva dato. Apertala in presenza di tutti, ciascuno poté vedere un canino, accovacciato nel cotone, il quale sarebbe passato attraverso a un anello da dito, senza nemmeno toccarlo. Il Principe lo posò in terra, ed egli si mise a ballare la sarabanda con accompagnamento di nacchere e con tanta grazia e leggerezza, come non avrebbe saputo far meglio, la più celebre ballerina spagnuola. Esso era di mille colori, tutti diversi, e il pellame e gli orecchi gli toccavano terra. Il Re rimase un po' male, perché era proprio impossibile trovar da ridire qualche cosa sulla bellezza di quel cagnolino. A ogni modo egli non aveva punta voglia di disfarsi della sua corona: ogni rosone di essa gli era mille volte più caro di tutti i cani dell'universo. Disse dunque ai suoi figliuoli di essere arcicontento di tutto quello che avevano fatto: ma siccome eran riusciti così bene nella prima prova, voleva avere un altro saggio della loro abilità, prima di mantenere la parola data; per cui dava loro tempo un anno a cercargli una pezza di tela così fine e sottile, da passar tutta dalla cruna di un ago, di quelli da ricamo. Tutti e tre sentirono male la cosa di doversi rifar da capo a cercare. I due principi, i cui cani erano meno belli di quello del fratello minore, si rassegnarono. Ognuno se n'andò per il suo viaggio e senza perdersi in tante tenerezze come la prima volta, perché il bel cagnolino era stato cagione di un certo raffreddamento fra loro.

Il nostro Principe rimontò sul suo cavallo, e senza curarsi di altri aiuti, all'infuori di quelli che poteva attendere dalla Gatta Bianca, partì alla gran carriera e ritornò al castello, dov'ella gli aveva fatto così buon viso e lieta accoglienza. Trovò che tutte le porte erano spalancate e le mura risplendenti per centomila fiaccole accese, che facevano un effetto meraviglioso. Le solite mani, che l'avevano servito sempre con tanta puntualità, gli si fecero incontro: e presa la briglia del bravo cavallo di legno, lo portarono alla scuderia, mentre il Principe si avviava verso la camera di Gatta Bianca. Ella stava coricata dentro a una piccola cestina sopra un guanciale di seta, bianca come la neve. La sua pettinatura era un po' trascurata e la fisonomia abbattuta e trista: ma appena visto il Principe, fece mille salti e mille sgambetti, per fargli intendere la gioia che provava. "Per quante ragioni avessi per credere al tuo ritorno", diss'ella, "ti confesso, o figlio di Re, che ci contavo assai poco: per il solito sono così disgraziata ne' miei desideri, che questa volta mi par proprio di aver avuto una vera fortuna." Il Principe, in ricambio, le fece mille carezze: e le raccontò l'esito del suo viaggio, che forse ella già sapeva meglio di lui; e venne a dire come qualmente il Re voleva una pezza di tela che potesse passare dalla cruna d'un ago; che questa cosa a lui gli pareva impossibile, ma che a ogni modo voleva tentarla, ripromettendosi miracoli dalla buona amicizia e dall'aiuto di lei. Gatta Bianca, pigliando una cert'aria di serietà, rispose che non era una faccenda da darsene pensiero: che, per buona fortuna, aveva nel suo castello delle Gatte che filavano benissimo: che essa pure vi avrebbe messo lo zampino, per mandare avanti il lavoro; in una parola che egli poteva starsene tranquillo, e che avrebbe trovato lì quello che cercava, senza bisogno di andare a girellone per il mondo. In quel punto apparirono le mani, le quali portavano delle fiaccole: e il Principe andando dietro a esse, insieme con Gatta Bianca, entrò in una magnifica terrazza coperta, che dava lungo un gran fiume, sul quale furono incendiati bellissimi fuochi d'artifizio. Vi si dovevano bruciare quattro gatti, ai quali era stato fatto un processo in tutte le regole. Erano accusati di aver mangiato l'arrosto preparato per la cena di Gatta Bianca, il suo formaggio e il suo latte: e di aver cospirato contro la sua real persona insieme con Martafaccio e l'Eremita, famosi topi di quella contrada e tenuti per tali anche da La-Fontaine, scrittore degnissimo di fede; ma, con tutto questo, si sapeva che nel processo c'erano stati molti pasticci, e che quasi tutti i testimoni avevano preso il boccone. Fatto sta, che il Principe ottenne per loro la grazia: e i fuochi d'artifizio non bruciarono nessuno: e dei razzi e delle girandole a quel modo, non se ne sono mai più vedute. Dopo i fuochi fu imbandita una cena, che il Principe gustò assai più delle girandole e dei razzi, perché aveva una fame da lupi, per la ragione che il suo cavallo di legno l'aveva fatto correr tanto, come se fosse stato in strada ferrata, e anche più. I giorni passavano e si somigliavano: feste dalla mattina alla sera, e sempre differenti, colle quali l'ingegnosa Gatta Bianca teneva allegro il suo ospite: e forse non c'è stato un altro mortale, che si sia tanto divertito, non avendo con sé altra compagnia che quella dei gatti. Gli è vero che Gatta Bianca aveva uno spirito grazioso, seducente e adattato a ogni cosa; ella ne sapeva più di quel che è lecito saperne a un gatto: e il Principe molte volte ne rimaneva stupito. "No", esso le diceva, "le meraviglie che mi vien fatto di notare in voi, non sono punto naturali: se voi mi amate davvero, carissima Micina, ditemi per quale miracolo pensate e parlate con tanta finezza di buon senso, da rendervi degna di sedere fra i begl'ingegni delle più celebrate Accademie." "Finiscila con queste domande, figlio di Re", ella gli disse, "a me non è lecito risponderti: tu puoi almanaccare quanto ti pare e piace: padronissimo! Ti basti soltanto sapere che avrò sempre per te una zampina col guanto di velluto: e che ogni cosa che ti riguarda sarà come se fosse una cosa mia."