Fiabe Classiche e Popolari Italiane - Basile: Lo scarafaggio, il topo, e il grillo (Giornata III, Favola V)

(testo esaminato e riadattato in italiano moderno da me; per favore, vedasi note a pié di pagina.)

lo scarafaggio, il topo, e il grillo

illustrazione da «Le Prime fiabe del Mondo»
(© Giunti Editore 1996)

«Lo Cunto de li cunti» («Il Pentamerone»), 1634

libro animato

Nardiello viene mandato tre volte dal padre a fare commerci, con in mano cento ducati. Durante il percorso, incontra uno scarafaggio, poi un topo, infine un grillo, e spende i soldi avuti dal padre, per acquistare i tre animali. Per questo il padre lo caccia da casa, ma grazie ai tre animaletti guarisce la figlia di un re, e dopo vari avvenimenti, la sposa.

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C'era una volta, sul Vomero, un massaro ricchissimo, chiamato Miccone, il quale aveva un figlio, Nardiello, che era il più sciagurato combina guai del mondo, tanto che il povero padre se ne stava tutto amareggiato e disgraziato, perché non sapeva come fare a fargli mettere la testa a posto e a raddrizzarlo. Infatti, Nardiello passava le sue giornate all'osteria a ingozzarsi con gli amici e con gli imbroglioni, oppure in compagnia di donnacce per le quali pagava più del dovuto; se giocava nelle bische lo ripulivano a dovere, e insomma, in breve tempo aveva già dilapidato metà del patrimonio. La cosa, naturalmente, mandò su tutte le furie il padre, che gli gridava e lo minacciava continuamente dicendo: "Che credi di fare, spendaccione? Non vedi che la roba mia se ne sta andando in malora? Quando la smetterai con queste maledette osterie, che cominciano per oste e finiscono per rie, che vuol dire «cattive» ? Lascia perdere questi postacci, che finiranno per mandarci in malora, smettila con questi posti che mette a rischio la vita e rosicchia la roba, che spinge via le contentezze e consuma i contanti, dove i dadi ti riducono a zero e le parole ti assottigliano come uno zipolo! Smettila di frequentare quelle cattive compagnie, che ti portano via tutto e ti lasciano in mutande! Lascia perdere quelle meretrici, lascia perdere i vizi e deciditi a mettere la testa a posto! Ecco, guarda, ora io ti dò cento ducati: vai alla fiera di Salerno, e compra tanti bei giovenchi, così in tre o quattro anni ne faremo tanti buoi; fatti i buoi, ci metteremo a lavorare il campo; lavorato il campo, cominceremo a far commercio di grano e se ci capita una buona carestia faremo un sacco di soldi, e con quei soldi ti comprerò della buona terra e anche tu diventerai un signore come tanti altri. Quindi, bada, figlio mio, ogni cosa capo ha, e chi non comincia non continua." "Lascia fare a me, e fidati." rispose Nardiello, "che adesso so il fatto mio!". "Oh, così ti voglio, bravo!" disse il padre e, sborsati i danari, quello s'avviò alla fiera. Ma non era ancora arrivato alle acque del Sarno, che, in un bel boschetto di olmi, vide ai piedi di una pietra una fata che giocherellava con uno scarafaggio suonatore di chitarra, che se lo avesse visto uno spagnolo avrebbe detto che era una cosa meravigliosa. Alla vista di questa scenetta, Nardiello rimase incantato e si fermò ad ascoltare, dicendo che avrebbe dato una ciliegina in cambio di un animale così intelligente: allora la fata rispose che glielo avrebbe ceduto per cento ducati. "Cascano proprio a fagiolo, questi cento ducati che per combinazione ho proprio qui con me ora." e così dicendo, pagò la fata con i soldi che gli aveva affidato il padre, e prese lo scarafaggio, lo mise dentro a una scatolina e se ne andò, sprizzando felicità da tutti i pori. "Ora vedrai, padre mio, come sarai orgoglioso di me!" e giunto dal padre gli disse: "Guarda, padre mio, hai visto che so il fatto mio? Senza stancarmi per arrivare fino alla fiera, a metà strada ho trovato la fortuna, e ho comprato questo gioiellino!" Il padre, vedendo la scatolina e sentendo i discorsi del figlio, pensò che avesse trovato dei diamanti, ma quando vide che si trattava solo di uno scarafaggio, si sentì assalire di nuovo dalla rabbia per aver visto come quello scellerato di suo figlio si era fatto un'altra volta raggirare; e Nardiello, invece, tutto contento non riuscì a spiegargli le virtù dell'animaletto, perché il padre lo assalì dicendo: "Stai zitto, buono a nulla, asino! Chiudi questa bocca! Vai subito a restituire lo scarafaggio a chi te l'ha venduto e con questi altri cento ducati vedi di correre dritto alla fiera a comprare i giovenchi, e bada di non perderti un'altra volta in chiacchiere, o ti faccio mangiare le mani con i denti!" Nardiello allora prese i soldi e s'avviò alla Torre di Sarno, ma quando arrivò nello stesso posto dell'altra volta, ci trovò un'altra fata, che tutta allegra e divertita, si stava deliziando con un topino che faceva i più bei salti e balli che si potesse mai vedere. Invece che proseguire, Nardiello, sbalordito,  rimase lì impalato per un pezzo ad osservare le piroette, le capriole e i passi del topino ballerino, e alla fine pagò gli altri cento ducati alla fata in cambio del topolino, poi, tornato a casa sua, mostrò allo sventurato Miccone il bell'acquisto fatto e.. putiferio! Fece cose dell'alto mondo per la rabbia, sbattendosi come un polipo bastonato, e sbruffando come un cavallo con le bizze. Furioso, alla fine mise in mano al figlio altri cento ducati e gli disse: "T'avverto, la terza volta non la passi liscia! Và subito alla fiera a comprare i giovenchi, o ti farò rimpiangere d'esser nato!" Nardiello mise la coda in mezzo alle gambe e a testa bassa s'incamminò verso la fiera, quando, per la terza volta, giunto allo stesso posto delle altre volte, ecco una terza fata che giocava con un grillino canterino, il quale cantava con una vocettina tutta melodiosa che conciliava il sonno. Nardiello, al sentir cantare questo usignolo, si mise in testa subito di far subito anche quest'affare, e per cento ducati la fata gli vendette il prodigioso animaletto. Il padre, vedendo che il figlio si era fatto fregare per la terza volta, non ci vide più e lo bastonò a sangue. Nardiello, quando riuscì a sguinzagliargli via, prese i tre animaletti e scappò via dal paese, diretto verso la Lombardia. E lì c'era un riccone di nome Cenzone, che aveva una figlia unica di nome Milla, la quale, a causa di una certa malattia, le era venuta una gran malinconia, che non rideva più da ben sette anni. Il padre, dopo aver tentato mille rimedi e dopo aver tentato di tutto, fece emanare un bando, e cioè, che, chiunque fosse stato in grado di farla ridere, l'avrebbe avuta in moglie. Nardiello, quando apprese la storia dal bando, si mise in testa di tentare la fortuna, e si recò da Cenzone e si offrì di far ridere Milla. "Pensaci bene, ragazzo, perché se non ci riesci, ti farò tagliar la testa!" disse il ricco signore. "Ebbene, non importa, sono disposto a rischiare, poi capiti quel che capiti, ma io voglio provare!" rispose Nardiello. Allora il re fece venire la figlia, e, sedutosi su un baldacchino, Nardiello tirò fuori dalla scatola i tre animali, i quali suonarono, ballarono e cantarono con tanta grazia e tante moine, che la principessa scoppiò a ridere, ma pianse il principe dentro il suo cuore, perché, come stabiliva il bando, era costretto a dare un gioiello di ragazza a un uomo tanto brutto; ma non potendo tirarsi indietro, disse a Nardiello: "Ti do mia figlia in sposa e lo Stato in dote, a patto che se tu non consumi in tre giorni il matrimonio io ti faccio mangiare dai leoni." "Io non ho paura," disse Nardiello, "perché in tre giorni io ti consumo la figlia, il matrimonio e tutta la casa!" "Piano, piano, che i meloni si riconoscono con un assaggio!"

Fatta dunque la festa e venuta la sera (quando il sole come un ladro è portato con la cappa in testa nel carcere dell'Occidente) gli sposi andarono a letto, ma siccome il re, per dispetto, fece dare un sonnifero a Nardiello, egli s'addormentò di colpo e russò tutta la notte. E siccome il fatto si verificò anche le altre due notti, il re lo fece buttare nella fossa dei leoni; Nardiello allora aprì la scatolina dei tre animali, dicendo: "Visto che la mala sorte mi ha trascinato in questo triste epilogo, non avendo altro da lasciarvi, vi rendo la vostra libertà, e andate in pace." Le bestie, appena furono libere, cominciarono a fare tanti scherzetti e giochini che i leoni rimasero fermi come statue; e intanto, a Nardiello, che aveva già il morale sotto i piedi, il topolino disse: "Allegro, padrone, che se tu vuoi renderci la libertà, noi vogliamo esserti servitori più di prima, perché ci ha trattato con tanto amore e affetto, e noi vogliamo darti un segno di dedizione per questo. Tranquillo, perché chi fa del bene, bene riceverà. Sappi che noi tre siamo fatati, quindi, affidati a noi, e noi ti toglieremo dai guai." Così, Nardiello si affidò ai suoi animali, e mentre li seguiva, il topo fece subito un buco nel muro grande a sufficienza perché potesse passarci un uomo, seguendo una scaletta lo riportarono su, poi lo deposero in un pagliaio e gli dissero di ordinare pure tutto ciò che voleva, perché avrebbero fatto qualsiasi cosa per fargli piacere. E Nardiello disse: "Vorrei soltanto che se il re, nel frattempo, avesse già concesso la principessa in sposa a un altro uomo, che gli si impedisse di consumare il matrimonio, poiché sarebbe come consumare questa mia disgraziata vita." E gli animali risposero: "Consideralo fatto, padrone. Ora stai su di morale e aspettaci in quella capanna, mentre noi andiamo ad eseguire i tuoi ordini!" E avviatisi a corte, scoprirono che in effetti il re aveva fatto sposare la figlia con un signore tedesco e quella sera stessa si doveva consumare il matrimonio. Così, le tre bestiole fatate s'infilarono di soppiatto nella camera nuziale, dove attesero l'arrivo degli sposi, aspettando la fine del banchetto. Quando la coppia si ritirò nella stanza, lo sposo si era piuttosto ingozzato e aveva assai trincato, e per questo motivo, come toccò il letto si addormentò subito, tanto che erano passati solo pochi minuti che già russava vigorosamente. Allora lo scarafaggio salì svelto svelto sul letto e si andò a infilare nel deretano dello sposo, facendogli da supposta, cosicché gli fece riempire tanto il letto, che come si direbbe con le parole del Petrarca:

«d'amor trasse indi un liquido sottile.»

La sposa allora fu svegliata dall'odore ben poco piacevole della dissenteria, e svegliò a sua volta lo sposo, il quale, vedendo il bel disastro combinato, si sentì morire di vergogna e bruciare dalla collera, e, alzatosi subito dal letto, dopo aver fatto un bel bagno riparatore, convocò subito i medici, i quali, dopo attenta analisi, dichiararono che la colpa era senza ombra di dubbio degli stravizi del banchetto. Dopodiché, gli consigliarono, per la sera dopo, onde evitare che il fattaccio si ripetesse, che si bardasse per bene di panni spessi e pesanti. Ma coricatosi la sera dopo, di nuovo si addormentò di colpo nel letto, tornò lo scarafaggio a ripetergli il gentile servizio, sicché questi non si aspettò di trovare il passaggio ostruito; andò allora a lamentarsi dai suoi compagni, raccontando come lo sposo si fosse premunito con panni extra. Disse allora il topo: "Vieni con me, e vedrai come gliel'abbatto bene io la sua trincea!"; quindi si attaccò alle mutande dello sposo e cominciò a rosicchiarle con decisione, e in breve tempo creò un bel buco, attraverso il quale lo scarafaggio poté infilarsi e zacchete! Al disgraziato sposo fu zelantemente somministrata una seconda cura lassativa, ancora più potente della prima, che fece uscire dal sedere del tedesco una mareata di topazio liquido, tanto puzzolente da appestare tutto il palazzo. Sicché la sposa si svegliò con la nausea, e alla vista del vomitoso liquido giallo che aveva fatto diventare le lenzuola d'Olanda tabiò di Venezia giallo a onde, tappandosi il naso per il disgusto, scappò a rifugiarsi nella camera delle sue ancelle, e il disgraziato sposo rimase solo a lamentarsi con i suoi consiglieri sul poco onorevole inizio del suo matrimonio. I famigliari cercarono di confortarlo e gli fecero grandi raccomandazioni per la sera successiva, poiché, ricordandogli il racconto del malato petezzone e del medico mordace: quella del malato, che alla prima scoreggia, il medico sapientone aveva proferito un: "Salute!"; alla seconda, aveva aggiunto: "Sono le correnti d'aria!", mentre alla terza, aveva dichiarato: "Questa è asinaggine!". Da questo si deduce facilmente, che, nel caso dello sventurato sposo, se la prima inondazione era da addebitare ai disordini alimentari della prima sera; la seconda, a dei disturbi intestinali, alla terza si sarebbe senz'altro detto che era un vizio, e lo sposo sarebbe così stato cacciato senza troppi complimenti. "Non dubitate" dichiarò lo sposo, "intanto studieremo subito un rimedio, e inoltre, dovessi anche morire di sonno, questa notte sarò vigile e starò all'erta, perché mai si dica: «tre voltecadde e alla terza giacque!» ". Così, la terza notte, dopo aver ripulito e rinfrescato stanza e letto nuziale, grazie allo stratagemma di  un servo che faceva il bombardiere, lo sposo andò a letto dotato di un bel tappo di legno al sedere, del genere che si fa di solito per i mortaretti. Quando fu pronto per coricarsi, evitò di toccare la sposa e di muoversi troppo per evitare che il tappo potesse venir via e si sforzò di restare sveglio. Lo scarafaggio, vedendo che quello non s'addormentava, disse ai compagni: "Ahimè, ragazzi, questa volta ce l'hanno fatta, e la nostra arte sarà vana, perché lo sposo non vuol saperne di mettersi a dormire, e se non dorme, io non posso fargli la cura!" "Aspetta" disse il grillo, "che adesso lo servo io!", e gli fece una dolce serenata, che in pochi minuti mandò lo sposo nelle braccia di Morfeo, lasciando libero il compagno di agire indisturbato; ma quando lo scarafaggio si avvicinò al sedere per cominciare il solito lavoro, trovando la strada sbarrata, ritornò disperato dai compagni a raccontare l'accaduto. Il topo, che non aveva altro scopo se non quello di servire e accontentare Nardiello, corse in dispensa e, annusando vasetto dopo vasetto, trovò un vaso di mostarda di senape, dove si strofinò la coda e corse al letto dello sposo per strofinarsi contro le narici dello sposo, che lasciò partire un sonoro sternuto, così forte e violento, che fece saltare in un colpo tappo e tutto il resto; il tappo andò a sbattere sul petto della sposa, con una violenza inaudita, che a momenti l'ammazzava. La sposa si mise quindi a strillare, facendo accorrere il re, e ai pianti disperati dichiarò di essersi sentita di botto colpita come da un petardo. Al re sembrò una storia assurda, ma poi, sollevando le lenzuola, l'inondazione intestinale e il tappo di mortaretto, che avevano fatto un bel livido alla sposa, la quale ora non sapeva più se si sentiva più umiliata per la botta del tappo o per il disgustoso fiume marrone. Il re, visto che il fattaccio si era ripetuto per la terza volta, e vista la disperazione di sua figlia, cacciò senza indugio il tedesco, e a mente fredda considerò con se stesso che forse tutto quello che gli era capitato, era la giusta punizione per essere stato tanto ingiustamente crudele con il povero Nardiello, così cominciò a darsi i pugni in testa per il pentimento, e mentre si doleva e si lamentava del suo errore, ecco giungere lo scarafaggio che disse: "Stai allegro, sire, perché Nardiello mio padrone è vivo, e per il suo buon cuore, merita di essere tuo genero, e se lo desideri ancora, andrò subito a chiamartelo." E il re disse: "Oh, bel'animaletto mio, non sai quanta gioia e quanto sollievo mi danno le tue parole! Tu ora mi hai ridato la vita, e mi hai tolto un gran peso dalla coscienza, per il gran torto e per tutto il male che quel povero giovane ha passato a causa mia! Si, si, và, portamelo qui, perché lo voglio abbracciare come un figlio e dargli mia figlia in moglie." Sentendo queste parole, il grillo corse saltellando allegramente alla capanna dove si trovava rifugiato Nardiello, e dopo avergli dato le ultime buone nuove, lo accompagnò alla presenza del sovrano, il quale lo abbracciò calorosamente e gli consegnò Milla in sposa, la quale fu ancora più felice nel vedere il suo nuovo sposo tramutato in uno splendido e affascinante giovanotto. Poi mandarono a chiamare Miccone, che si rallegrò per la fortuna capitate al figlio, e tutti insieme vissero felici e contenti, provando dopo mille stenti e mille affanni che

«ne capitano più in un ora che in cent'anni»

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