Fiabe Classiche e Popolari Italiane - Basile: La fiaba dell'orco (Giornata I, Favola I)

(testo esaminato e riadattato in italiano moderno da me; per favore, vedasi note a pié di pagina.)

l'oste malmenato a dovere

«Lo Cunto de li cunti» («Il Pentamerone»), 1634

libro animato

Antonio, un giovane di Marigliano, è cacciato di casa dalla madre, per essere un gran buono a nulla, e finisce a servizio presso un orco, il quale, molto generosamente, gli fa grandi regali ogni volta che Antonio vuol tornare per un po' a casa sua, ma ogni volta si fa raggirare da un oste. Alla fine l'orco gli fa dono di un bastone che punirà la sua ignoranza e gli farà fare penitenza; e infine, l'orco farà diventare ricco Antonio e la sua famiglia.

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Si racconta che c'era una volta nel paese di Marigliano una brava donna di nome Masella, la quale, oltre ad avere per figlie sei zitelle, aveva un figlio maschio, che era uno scemo buono a nulla e pecorone, tanto che se ne stava tutto il tempo come una scrofa con il randello in bocca, e perciò non passava giorno che la povera madre non si lamentasse con lui dicendogli: "Che cosa fai tutto il giorno a casa, mangiapane a tradimento? Vattene, buono a nulla, fuori, maccabeo, sprofonda piantagrane, levati dalle scatole, che invece di un bel lupetto in culla, mi son ritrovata con un maialone mangialasagne a tradimento come te!"

Ma vedendo che non c'era speranza che Antonio (così si chiamava il ragazzo) mettesse finalmente la testa a posto, un giorno, dopo avergli lavato bene la testa senza sapone, prese un matterello e cominciò a menargliele di santa ragione. Antonio, che non si aspettava di certo tante legnate, come riuscì a divincolarsi fuggì via alla velocità della luce, e tanto camminò che passarono ventiquattr'ore (quando cominciavano ad accendersi le lucine nelle botteghe della luna), e arrivò ai piedi di un'alta montagna, così ripida che giocava a rimpiattino con le nuvole, dove, sotto a un'enorme radice di un pioppo ai piedi di una grotta di pietra pomice, stava seduto un orco, e quant'era brutto! Era nano e trasandato, aveva la testa più grossa di una zucca indiana, la fronte era tutta bitorzoluta, le sopracciglia quasi appiccicate, gli occhi strabici, il naso ammaccato con due narici che sembravano due fogne, una bocca grossa come un forno, dalla quale cadevano due lunghissime zanne che gli arrivavano ai piedi, il petto era tutto peloso, le braccia da arcolaio, con le gambe a volta di cantina e i piedi piatti come una paperella: insomma, era brutto come un diavolo, un fantasma che avrebbe fatto rabbrividire Orlando e impallidire anche il più coraggioso degli uomini.

Ma Antonio, che non osava muovere un passo, fece un lungo inchino e disse: "Signor mio, come state? Volete qualcosa? Quanto manca al luogo dove sto andando?" L'orco, sentendo questo discorso scombinato, si mise a ridere, e poiché chissà come quello strano ragazzo gli parve simpatico, gli disse: "Vuoi venire a lavorare per me a casa mia?" E quello rispose: "E quanto mi dai al mese?" e l'orco gli fece: "Tu pensa a fare bene il tuo lavoro, che andremo d'accordo e sarai contento." E così, fatto questo patto, ad Antonio non restò altro che andare a servire l'orco, dove ebbe da mangiare a crepapelle senza dover neanche faticare, cosicché in capo a quattro giorni, egli diventò grasso come un porcello, tondo come un bue, tutto ringalluzzito, rosso come un gambero, verde come l'aglio, e ciccione quanto una balena, così grosso e ingombrante che quasi non vedeva dove camminava.

Ma non passarono due anni, che cominciò a stufarsi di tutta quell'opulenza e quasi per noia cominciò a ripensare alla sua vecchia casetta, e pensa e ripensa, la nostalgia si fece tanto forte da consumarlo tutto, e così si fece magro che s'era quasi ridotto come prima. L'orco, che lo osservava attentamente, vedendo le sue insoddisfazioni, come un commensale davanti a un cattivo piatto, lo chiamò un giorno da parte e gli disse: "Antonio mio, io so che hai una gran smania di rivedere casa tua, e siccome ti voglio bene come a un figlio, ti concedo una breve vacanza, e che tu ti possa togliere questa voglia. Prendi dunque con te quest'asino, che ti allevierà la fatica del viaggio, ma stai in campana, non dirgli mai «Alé, caca oro», perché se lo fai, potresti pentirtene amaramente, te lo giuro sulla buon'anima di mio nonno."

Antonio, senza neanche dire buona sera, prese con sé l'asinello, gli salì in groppa e trottando s'incamminò; ma non aveva fatto ancora cento passi, che, smontato dal somaro, gli venne la curiosità di dire «Alé, cacaoro» e aveva appena aperto la bocca, che quello prese a cacare perle, rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti, ognuno grande quanto una noce. Antonio, rimasto a bocca aperta, rimirava le belle defecazioni, le meravigliose diarree e le superbe dissenterie fornite dall'asino, e tutto felice e radioso, si riempì per bene le tasche di tutte quelle ricchezze, poi rimontò in groppa all'animale e riprese a trottare di buona lena, fino a quando giunse a un'osteria, smontò, e la prima cosa che disse all'oste, fu: "Metti al sicuro il mio asino nella stalla, riempilo bene di cibo, ma fai attenzione a non dirgli mai «Alé, cacaoro», o avrai seriamente a pentirtene. Poi conservami queste gioie in un posto sicuro."

L'oste, che era furbo come una volpe, appreso questo strano ordine, come vide i gioielli che valevano milioni, sgranò tanto d'occhi davanti a quel ben di dio, e gli venne la curiosità di vedere cosa significano quelle strane parole, così, diede per bene da mangiare e bere a quell'allocco di Antonio, finché lo fece addormentare tra un saccone e una coperta di panno grosso, e come quegli si fu assopito e cominciò a russare, subito sgattaiolò via e corse alla stalla a pronunciare le famose parole all'asino, il quale, a sentirle, ricominciò il solito abbondante rito di preziosissima defecatura, presentando così all'oste una gran quantità di gioie. Alla vista di quel ben di dio d'evacuazione asinina, l'oste pensò di scambiare la bestia per ingannare quel babbeo di Antonio, valutando quanto fosse facile ingannare e infinocchiare quel un pecorone semplicione che gli era capitato per le mani. Così, la mattina dopo –quando compare l'aurora a vuotare il vaso da notte sulla finestra d'Oriente – come fu sveglio Antonio, dopo che si fu stropicciato gli occhi e stiracchiato per mezz'ora nel letto, si decise a chiamare l'oste e gli disse: "Vieni qui, amico, patti chiari e amicizia lunga; dimmi, presto, quanto ti devo e prenditi ciò che ti spetta." Quindi, tutto calcolato per pane, vino, minestra, carne e formaggio, pagato per il vitto e per la notte, sborsò i denari e, preso l'asino fasullo che era stato scambiato con quello magico, e con un saccho di pietra pomice al posto delle pietre preziose, si affrettò verso il casale materno, e come fu arrivato, corse come se avesse il peperoncino nel didietro, e si diresse verso la porta di casa gridando: "Corri, mamma, corri, che siamo ricchi! Apparecchia la tavola, stendi lenzuola e coperte e vedrai che tesori!"

Al sentir queste parole, l'incredula mamma si lasciò prendere dall'entusiasmo e andò dritta a una cassapanca, di dove tirò fuori il corredo matrimoniale destinato alle figlie, tanto gelosamente curato, e stese tutto per bene in terra; vi misero sopra l'asino fasullo, e Antonio cominciò a proferire le magiche parole; ma l'asino sembrava insensibile a quei versi, sicché egli riprovò tre o quattro volte a pronunciare il fatidico «Alé, cacaoro», ma visto che non c'era niente da fare, afferrò un bastone con il quale cominciò a menare il sedere di quella cocciuta bestia, la quale, a forza di sentirsi solleticato come dal peperoncino, non potendo più trattenere lo stimolo, alla fine si lasciò andare a spargere un fiume di puzzolente liquido giallo che battezzò senza pietà le candide lenzuola. Alla vista di quel disastro, la povera Masella, dopo che si era tanto illusa di passare dalla miseria al lusso, vedendo così ridotto il corredo e impuzzita tutta casa da averne il voltastomaco, senza pensarci due volte andò su tutte le furie, acchiappò un bastone, e senza neanche dargli il tempo di tirar fuori le finte pietre nel sacco, gliene suonò tante da farlo scappare a gambe levate verso la casa dell'orco.

L'orco, vedendolo arrivare di gran carriera, essendo già al corrente di tutta la faccenda (era infatti una creatura magica), gli fece una bella ramanzina, per essersi lasciato abbindolare così da scemo da quel imbroglione dell'oste, e lo riempì di insulti e parolacce, chiamandolo buono a nulla, mamma-mia-beviti-questo, uccellaccio, minchione e altre belle parole molto poco lusinghiere, per essersi era fatto scappare da sotto il naso un asino fatato in cambio di uno che era in grado di fare solo mozzarelle inacidite. Il povero Antonio inghiottì l'amaro boccone e pianse talmente da giurare che mai più si sarebbe lasciato fregare da nessuno.

Ma di lì ad appena un anno, ecco che gli riprese la nostalgia di casa. L'orco, che era tanto buono di cuore quanto brutto di viso, gli diede nuovamente il permesso di andare, e gli fece dono di un tovagliolo, e gli disse: "Porta questo a mamma tua, ma attento; non fare il somaro come l'anno scorso con l'asino, e non dire per nessuna ragione «Apriti», né «Chiuditi, tovagliolo», perché se ti ricapita qualche altro guaio saranno affari tuoi. Ora, và, e torna presto".

Antonio partì, ma subito dopo, giunto vicino alla grotta, non resistesse alla tentazione di dire «Apriti» e «Chiuditi, tovagliolo», che subito fu riempito di bellezze da far sgranare gli occhi. Allora Antonio disse «Chiuditi, tovagliolo», e con tutte le pietre preziose richiuse dentro, se la filò di corsa alla stessa osteria dell'anno prima, e disse al solito oste: "Tieni, conservami da qualche parte questo tovagliolo, ma bada bene di non dire per nessun motivo «Apriti» né «Chiuditi, tovagliolo», o saranno guai per te." L'oste, che era un furbo di tre cotte, rispose: "Lascia fare a me", e ristoratolo per bene tanto da stordirlo, lo mandò a letto, e, preso il tovagliolo, subito disse le parole magiche, e fu invaso di bellezze e meraviglie, di cui si riempì lautamente le tasche. Poi, mettendo in atto la stessa forma di inganno della volta precedente, trovò un tovagliolo in tutto simile a quello magico, e lo rifilò al tonto di Antonio, e lui, di gran carriera, si diresse il giorno dopo verso la casa della mamma, e quando giunse sulla porta, disse strillando: "Mamma, questa volta è fatta! Questa volta daremo un calcio alla miseria e abbandoneremo stracci e pezze e saremo ricchi per davvero!"

Dicendo così, stese subito per terra il tovagliolo, credendo che fosse quello fatato, e cominciò a proferire le parole di rito, ma avrebbe potuto continuare all'infinito, che non ne avrebbe cavato un ragno da un buco; perciò, vedendo che qualcosa non tornava, disse: "Perdindirindina, quella volpe dell'oste me l'ha rifatta un'altra volta! Ah, ma questa volta gli farò rimpiangere d'esser nato! Giuro che a costo di perdere tutto quello che ho, quando ripasserò all'osteria, mi ripagherà dell'asino e delle gioie, e vedrà se stavolta non lo faccio a pezzi!" La madre, vista la nuova asinata, si arrabbiò e gli disse: "Ma falla finita, bestia di uno scomunicato! Levati di mezzo, vattene, che non sopporto più la tua vista, mi viene la nausea, mi si gonfia l'ernia e mi cresce il gozzo tutte le volte che mi capiti tra i piedi! Via, fuori! Fai conto che questa casa sia per te come il fuoco dell'inferno, di te me ne lavo le mani e faccio conto di non averti mai partorito!"

Il povero Antonio, senza farsi pregare, per non rimediare altre malmenate, abbassando la testa si avviò dritto alla casa dell'orco, il quale, vedendolo arrivare tutto moscio e lemme lemme, sapendo già quel che gli era successo, gli fece un'altra lavata di capo dicendo: "Non so chi o cosa mi trattenga dal cavarti un occhio, asino dal cervello di gallina, somaro matricolato, trombetta della Vicaria, che d'ogni cosa ci fa un bando, che vomiti quel che hai nel corpo e che non regge neanche i ceci! Se tu ti fossi fatto i fatti tuoi all'osteria, quel imbroglione non ti avrebbe derubato un'altra volta, ma per non tenere a freno quella lingua biforcuta che hai, ti sei fatto scivolare dalle mani anche questa fortuna!" Antonio, tutto umiliato, mise la coda in mezzo alle gambe, inghiottì anche questa pillola e se ne restò quieto e tranquillo altri tre anni al servizio dell'orco, pensando tanto a casa sua quanto alla voglia di far fortuna. Così capitò che gli tornò di nuovo il capriccio di rivedere i suoi, e perciò chiese ancora licenza all'orco, il quale era troppo buono per negargli questo piacere per la terza volta, e gli mise in mano un bel bastone lavorato e gli disse: "Tieni, porta con te questo bastone, ma bada bene, questa volta, di non dire mai «Levati, bastone!» né «Abbassati, bastone!», perché non ne voglio sapere di quel che ti accadrà se lo farai." Ma Antonio, prendendo la mazza, rispose: "Vai tranquillo, che questa volta ho messo sale in zucca, e ho imparato quante paia ci vogliono per fare tre buoi! Non sono più un ragazzo, e il prossimo che vorrà raggirarmi se la vedrà con il mio gomito!" A ciò rispose l'orco: "L'opera loda il maestro: le parole sono femmine e i fatti sono maschi; staremo a vedere. Chi ha orecchie per intendere, intenda, và, e uomo avvisato, mezzo salvato." E mentre l'orco continuava, Antonio se la filò, ma appena fu poco lontano, subito disse al bastone le parole fatate; ma questa volta non erano gioielli le regalie, bensì erano spallate e botte che piovevano a cielo aperto addosso al povero Antonio. Il poveretto, vedendosi pestare e malmenare di santa ragione, subito urlò «Abbassati, bastone!», e subito quello smise di picchiarlo sulla schiena. Perciò, ricordando quel che gli era successo le altre due volte, disse: "Zoppo sia chi fugge, che stavolta non mi lascio sfuggire l'occasione!" Così dicendo, cavalcò alla volta della ben nota osteria, dove fu accolto da gran signore, perché si sapeva che il sugo si faceva con la cotenna. Poi Antonio disse al famigerato imbroglione: "Tieni, conservami questo bastone, ma stà attento, non dire mai per nessun motivo «Levati, bastone!», né «Abbassati, bastone!», perché è molto pericoloso. Se lo fai poi non venire a lamentarti con me, io me ne lavo le mani, che non ho colpa di niente." L'oste, tutto giulivo all'idea di questa terza presunta fortuna caduta dal cielo, lo riempì per bene di minestra e lo portò a letto, e come Antonio crollò dal sonno, corse a prendere il bastone, e non contento, chiamò a sé la moglie ad assistere allo spettacolo, e disse: «Levati, bastone!»

A queste parole, il bastone cominciò a percuotere le costole degli osti e tuffete da qua, tiffete da là, gli fece un servizio completo di botte e percosse, e vedendosi tutti e due così ridotti e malmenati, corsero a svegliare Antonio, chiedendogli pietà. Il quale, vedendo che tutto era andato secondo i suoi piani, rispose: "Mi dispiace, non c'è rimedio, e voi due morirete di botte se non mi restituite subito tutti gli averi che mi avete sottratto con l'inganno." Allora l'oste, che non ne poteva più dal dolore, gridò: "Prenditi tutto quello che vuoi, prenditi tutto quello che ho, ma ti scongiuro, liberami da questa tortura prima che mi faccia a pezzi!" E per rassicurarlo ulteriormente, fece portare ad Antonio tutto quello che gli aveva rubato, e non appena Antonio ne rientrò in possesso, disse: «Abbassati, bastone!» e la mazza si accasciò a terra, e lui, recuperato l'asino, il tovagliolo magico e tutto il resto, se ne andò di gran carriera dalla mamma, dove, andando stavolta a botta sicura con l'asino e completando l'opera con il tovagliolo, fece ricca la mamma e sposate le sorelle, confermando un antico detto che dice:

“Dio viene in soccorso ai matti e ai bambini.”

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(Documento creato il 23 marzo 2008)