Fiabe Classiche e Popolari Italiane - Basile: Il ceppo d'oro (Giornata V, Favola IV)

(Testo proveniente dalla celebre traduzione dall'antico Napoletano di Benedetto Croce (1866-1952) del Cunto de li Cunti, pubblicata nell'anno 1925. ©Benedetto Croce. Reperito sul Internet Archive.org Il testo è da me qui divulgato al solo scopo culturale e amatoriale.)

immagine illustrativa

("The Golden Root" di Warwick Goble, 1911. Passa il puntatore del mouse sull'immagine per ingrandirla.)

«Lo Cunto de li cunti» («Il Pentamerone»), 1634

libro animato

Parmetella, figlia di un povero villano, incontra una buona fortuna; ma per la sua troppa curiosità, se la fa fuggir di mano, e, dopo aver sofferto mille travagli, trova il marito in casa della madre di lui, ch'era un'orca, e, superati pericoli grandi, i due restano insieme contenti.

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C'era una volta un ortolano, il quale, essendo poverello poverello, che, per quanto faticasse, a stento si procurava il pane per sostentarsi, comprò tre scrofette alle sue tre figlie femmine, affinché, allevandole, si mettessero da parte un po' di doticciuola. Pascuzza e Cice, che erano le maggior, portarono a pascere[1] le loro due in un bel prato; ma non vollero che la più piccola, Parmetella, andasse con loro, e la scacciarono, dicendole di andare in qualche altro posto. Ed essa menò il suo animaletto a un bosco, dove le ombre si fortificavano contro gli assalti del Sole; e, quando fu in un prato, in mezzo al quale correva una fontana che, ostessa[2] d'acqua fresca, invitava con lingua d'argento il passeggiero a bere una mezzetta[3], trovò un bell'albero con le foglie d'oro. Parmetella ne spiccò una fronda e la portò al padre, che, con grande allegrezza, la vendé per più di venti ducati, i quali gli valsero a otturare qualche buco; e, avendo domandato alla figlia dove l'avesse trovata, costei gli rispose: «Prendi, messere mio, e non cercare altro, se non vuoi guastare la fortuna tua.» Il giorno dopo, tornò al medesimo luogo e fece la medesima cosa; e tanto continuò a sfrondare l'albero che questo rimase schiomato, come se avesse ricevuto il sacco dai venti dopo l'autunno. Parmetella vide che ne restava un gran ceppo d'oro, che non si poteva strappare con le mani; e perciò, ritornata con un'accetta, si mise a scalzare[4] intorno intorno il piede dell'albero, e, levato come meglio poté il ceppo, le apparve nel foro una bella scala di porfido[5]. Curiosa com'era fuor di misura, discese quei gradini, e, dopo aver camminato per un gran sotterraneo profondo profondo, uscì a una bella pianura, nella quale sorgeva un palazzo bellissimo, dove non calpestavi altro che oro e argento, né vedevi altro che perle e pietre preziose. E, mirando Parmetella, come trasognata, questo magnifico sfoggio, e non vedendo alcuna persona che fosse mobile in quello stabile, entrò in una sala, nella quale si vedevano dipinte tante belle cose, e in particolare l'ignoranza di un uomo stimato sapiente, l'ingiustizia di chi teneva le bilance, e i torti vendicati dal Cielo, cose da stupire, tanto parevano vere e vive; e in quella sala era una bella mensa apparecchiata. Parmetella, che si sentiva mancare dalla fame, non vedendo alcuno, si sedette a quella tavola, e cominciò a godersela come un conte. Ma, nel meglio del macinare, ecco entrare uno schiavo di bell'aspetto, che le disse: «Ferma, non partirti di qui, ché ti voglio per moglie, e intendo farti la più felice donna del mondo.» Tremò di paura Parmetella; poi, alle buone promesse, prese animo e si contentò di quelo che volle lo schiavo; onde le fu subito consegnata una carrozza di diamanti, tirata da quattro cavalli d'oro con ali di smeraldo e rubini, che la portavano volando per l'aria perché si prendesse spasso; e le furono date per servigio della persona una frotta di scimmie vestite di tela d'oro, che subito, abbigliandola da capo a piede, la misero nella forma di un ragno, che pareva proprio una regina. Venuta la notte, quando il Sole, desideroso di dormire alle rive del fiume dell'India senza zanzare, spegne il lume, lo schiavo le disse: «Bene mio, se vuoi fare la nanna, coricati in questo letto; ma appena ti sarai ficcata tra le lenzuola, spegni la candela, e sta' in cervello ad eseguire quanto io ti dico, se non vuoi imbrogliare il filato.» Parmetella così fece e si mise a dormire; ma aveva appena calate le palpebre che il moro, convertitosi in un bellissimo giovine, le si coricò a lato; ed essa, risvegliatasi, e sentendosi cardare senza pettine la lana, fu per morire dal terrore, ma, visto che la cosa si riduceva a guerra civile, stié ferma alle botte. E, prima che l'Alba uscisse a cercare uova fresche per confortare il vecchierello amante suo, lo sposo saltò giù dal letto e tornò a riprendere la patina del moro, lasciando Parmetella assai vogliosa di sapere quale ghiottone s'era sorbito l'uovo primaiuolo di così bella pollanca[6].

La seconda notte, coricatasi e spenta la candela come la volta precedente, al solito le si venne a coricare a lato il bel giovine; il quale, quando fu stanco di giocherellare, si pose a dormire. Ed essa allora dié mano a un focile[7] che aveva apparecchiato, e, accesa la candela, sollevò la coperta, e vide l'ebano diventato avorio, il caviale fior di latte, il carbone calce vergine. E mentre, a bocca aperta, mirava queste bellezze e contemplava la più bella pennellata che la natura avesse mai data sulla tela della meraviglia, il bel giovine si destò e prese a bestemmiare Parmetella, gridando: «Oimè, per colpa tua debbo stare altri sette anni in questa penitenza maledetta! per te, che con tanta curiosità hai voluto mettere il naso nei segreti meiei! Va', corri, rompiti il collo, che tu non mi possa più comparire innanzi, e torna ai tuoi stracci, ché non hai saputo conoscere la fortuna tua.» Così dicendo, dileguò come argento vivo. Fredda e gelata, Parmetella, abbassando il capo, uscì da quella casa; e, pervenuta che fu fuori della grotta, incontrò una fata, la quale le disse: «O figlia mia, quanto mi piange l'anima per la disgrazia tua! Tu vai al macello, dove questa tua sciagurata persona passerà pel ponte del cappello; e perciò, per rimedio al tuo pericolo, prendi queste sette fusa[8], questi sette fichi e quest'alberello di miele, e queste sette paia di scarpe di ferro, e cammina tanto, senza fermarti mai, finché le scarpe non si consumeranno, e tu non vedrai al balcone di una casa sette femmine, che staranno a filare dall'alto in basso, col filo ravvolto intorno a ossa di morti; e allora, sai che devi fare? Stattene ben acquattata, e, zitto zitto, quando il filo vien giù e tu levane l'osso e mettici il fuso avuto da me, e, al posto della cocca[9], il fico. Quelle, tirandolo in alto e sentendo il dolce, diranno: "A chi ha addolcito la mia boccuzza, sia addolcita la sua venturuzza" e, dopo queste parole, l'una appresso all'altra dirà: "O tu, che mi hai portato queste cose dolci, lasciati vedere" E tu risponderai: "Non voglio, ché mi mangi[10]; e quelle diranno: "Non ti mangio, se Dio mi guardi il mestolo" e tu punta i piedi e sta dura; ed esse continueranno: "Non ti mangio, se Dio mi guardi lo spiede[11]" e tu salda, come se ti facessi far la barba. Ed esse replicheranno: "Io non ti mangio, se Dio mi guardi la granata[12]. E tu non creder loro nulla. E se dicessero: "Non ti mangio, se il Cielo mi guardi il pitale[13]; e tu chiudi la bocca e non bisbigliare, perché ti farebbero evacuar la vita. In ultimo diranno: "Se Dio mi guardi Tuoni-e-lampi, non ti mangio"; e allora va' su e sta' pur sicura, ché non ti faranno male.»

Avuta questa istruzione, Parmetella cominciò a camminare, per valli e per monti, tanto che le scarpe di ferro in capo a sette anni si consumarono. E, giunta a un gran casone, dov'era una terrazzina sporgente, vide le sette femmine che filavano; e, adempiuto esattamente quanto le aveva consigliato la fata, dopo molti spiamenti e nascondimenti, in ultimo ottenne il giuramento di Tuoni-e-lampi, si mostrò e salì. Ma, non appena quelle sette femmine l'ebbero davanti, tutte insieme gridarono: «Ah, cagna traditora! Tu sei la causa che nostro fratello sia stato sette anni in una grotta, lontano da noi, in forma di uno schiavo. Ma non dubitare, ché, se con lo strapparci il giuramento ci hai messo un sequestro alla gola, alla prima occasione sconterai il nuovo ed il vecchio! Per ora, nasconditi dietro quella madia; e quando viene la madre nostra, la quale senz'altro t'inghiottirebbe, tu le va' dietro e afferrale le poppe, che porta come bisacce dietro le spalle, e tira quanto puoi e non lasciarle mai, finché non ti giura per Tuoni-e-lampi di non farti male.» Anche questo fu adempiuto punto per punto da Parmetella; e colei, dopo aver giurato per la paletta del fuoco, per la pergoletta, per l'attaccapanni, per l'aspo, per la rastrelliera, finalmente giurò per Tuoni-e-lampi; e allora essa lasciò andare le poppe e si fece vedere dall'orca. La quale le disse: «Me l'hai fatta! Ma solca diritto, traditora, ché alla prima pioggia ti farò portare via dalla lava!» E, cercando coi fuscelli l'occasione di trangugiarsela, un giorno prese dodici sacchi di legumi confusi e mescolati insieme, che erano ceci, cicerchie, piselli, lenticchie, fagioli, fave, riso e lupini, e le disse: «Tieni, traditora, prendi questi legumi e nettali in maniera che ogni qualità sia separata dall'altra: ché se per stasera la cosa non è fatta, io mi t'inghiotto come una zeppola di tre calli!» La povera Parmetella, sedutasi a pié dei sacchi, piangeva: «Mamma mia bella, oh quanto mi si è inceppato dentro il ceppo d'oro! Questa è la volta che la mia causa sarà spedita! Per vedere una faccia nera diventata biana, questo cuore afflitto è diventato strofinacciolo! Oimè, sono distrutta, sono andata, non c'è più rimedio! Mi pare di momento in momento di star giù nella golaccia di quell'orca fetida! Non c'è chi mi aiuti, non c'è chi mi consigli, non c'è chi mi consoli!» Mentre faceva questo piagnisteo, eccoti comparire Tuoni-e-lampi, il quale aveva terminato l'esilio della maledizione che gli era caduta addosso, e, benché stesse adirato con Parmetella, non poteva mutare il sangue in acqua. E, vedendola fare questo funerale, le disse: «Traditora, che cos'hai che piangi?» Ed essa gli raccontò il malo trattamento della madre, e il fine che voleva conseguire di sventrarla e mangiarsela. Tuoni-e-lampi le rispose: «Levati, fa'animo, ché non sarà quel che temi»; e, al tempo stesso, spargendo tutti i legumi per terra, fece piovere un diluvio di formiche, che subito li cominciarono a scegliere e ad ammucchiare separatamente: tanto che Parmetella, raccogliendo ogni qualità da una parte, ne riempì i sacchi.

Tornata l'orca e trovato che l'opera commessa[14] era stata eseguita, stié per disperarsi: «Quel cane di Tuoni-e-lampi mi ha resto questo bel servigio! Ma tu mi pagherai lo scapito! Prendi questi gusci di fustaggine[15], che servono per dodici materassi, e fa' che per questa sera siano pieni di piume; altrimenti, ti scannerò.» La sciagurata prese quei gusci, e, sedutasi per terra, ricominciò il lamento, martoriandosi tutta e facendo degli occhi due fontane; quando comparve Tuoni-e-lampi. «Traditora,» le disse, «non piangere: lascia fare a me, che ti conduco al porto. Sciogli le chiome, stendi a terra i gusci di materassi, e comincia a lacrimare e a gridare, che è morto il Re degli uccelli; e vedrai che cosa accadrà.» Parmetella fece così; ed ecco un nugolo d'uccelli, che oscurava l'aria, i quali, battendo le ali, facevano cadere a ciuffo a ciuffo le penne, tanto che, in minor termine di un'ora, i materassi furono pieni. E, venuta l'orca e visto il fatto, si gonfiò di tale rabbia che crepava pei fianchi. «Tuoni-e-lampi» gridò, «mi ha preso a seccare! Ma ch'io sia trascinata a coda di scimmia se non la colgo a un passo, dal quale non potrà scappare!» E disse a Parmetella: «Corri, precipitati a casa di mia sorella, e dille che mi mandi gli strumenti musicali, perché ho sposato Tuoni-e-lampi, e vogliamo fare un festino da re.» E, per un'altra via, mandò ad avvertire la sorella che, venendo la traditora a chiedere la musica, l'ammazzasse subito e la cucinasse, perché sarebbe andata a mangiarla in sua compagnia. Parmetella, che si vide comandare servigi più leggieri, si rallegrò tutta, credendo che il tempo fosse cominciato a rabbonirsi. Oh, come sono storti i giudizi umani! Ma, incontrato per istrada Tuoni-e-lampi, questi, vedendola filare di buon passo, l'arrestò: «Dove sei avviata, povera te! Non vedi che vai al macello e ti fabbrichi da te i ceppi, aguzzi tu stessa il coltello, tu stessa stemperi il veleno? ché sei mandata all'orca sorella perché ti mangi. Ma ascoltami e non dubitare: prendi questo pane, questo fascio di fieno e questa pietra; e, quando sarai arrivata a casa di mia zia, troverai un cane corso, che ti verrà contro abbiando per morderti; e tu dagli questo pane, che gli turi la gola; dopo il cane, troverai un cavallo scapolato, che ti si lancerà contro per colpirti a calci e calpestarti, e tu gettagli questo fieno e gli metterai le pastoie[16] ai piedi; finalmente, troverai una porta che sempre sbatte, e tu puntellala con questa pietra, ché le toglierai la furia. Poi sali e troverai l'orca con una bambina in braccio, la quale ha già acceso il forno per arrostirti; ed essa ti dirà: "Tienimi questa creatura, ché vado su a prendere la musica"; ma sappi che, invece, va ad affilarsi le zanne per sbranarti a pezzo a pezzo; e tu getta la bambina nel forno senza pietà, ché è carne d'orca, e prendi gli strumenti musicali, che stanno dietro la porta e svigna, prima che ridiscenda l'orca; altrimenti, sei perduta. Ma avverti che stanno[17] in una scatola, che tu non devi aprire, se non vuoi guai e sopraguai.» Fece Parmetella tutto quanto le aveva consigliato l'innamorato; ma, al ritorno, aperse la scatola, e subito vedesti volare di qua un flauto, di la una cennamella[18], da una parte una sampogna[19], dall'altro un chiuchiaro[20], che facevano per l'aria ogni sorta di suoni; e Parmetella dietro a loro, graffiandosi la faccia. In questo, scese l'orca e, non trovandola, s'affacciò alla finestra e gridò alla porta: «Schiaccia la traditora!» Ma la porta rispose: «Non voglio far male alla sventurata, che mi ha puntellata.» E gridò al cavallo: «Calpesta la malandrina!» e il cavallo rispose: «Non voglio calpestarla, perché m'ha dato il fieno a rosicchiare.» E chiamò, infine, il cane: «Mordi la vigliacca!» E il cane rispose: «Lasciala andare, poverella, che mi ha dato il pane!»

Correva Parmetella, gridando dietro gli strumenti, quando scontrò Tuoni-e-lampi, che le fece un gran rimbrotto: «O traditora! Non hai ancora appreso a spese tue che, per cotesta maledetta curiosità, sei nello stato in cui ti trovi?» E chiamò a fischio gli strumenti di musica e tornò a serrarli nella scatola, e le disse di portarli alla mamma. Questa, quando la vide, esclamò a gran voce: «Oh sorte crudele! Anche mia sorella mi è contraria, che non ha voluto darmi questo contento!» Intanto, sopraggiunse la sposa novella, che era una peste, un canchero, un'arpia, una mal'ombra, camusa[21], musuta[22], cisposa[23], sgangherata, impalata[24], che con cento fiori e frasconi pareva una taverna nuova aperta. La suocera le dié un gran banchetto; e, poiché buttava fiele, fece apparecchiare la mensa prezzo un pozzo, e intorno le sette figlie, ciascuna con una torcia in mano, e Parmetella con due torce, seduta sull'orlo, con disegno che, venendole sonno, farebbe il capitombolo in fondo all'acqua. Ora mentre i piatti andavano e venivano e il sangue cominciava a scaldarsi, Tuoni-e-lampi, che stava come sposa sposa malcontenta, disse a Parmetella: «O traditora, mi vuoi bene?» Ed essa rispose: «Fin su al comignolo!» E quegli replicò: «Se mi vuoi bene, dammi un bacio.» Ed essa: «Dio me ne scansi, lontano sia! Bella roba che hai accanto! Dio te la mantenga di qui a cent'anni, con salute e figli maschi!» E la sposa intervenne: «Ben si vede che sei una sciagurata, se anche campassi cent'anni, che fai la schifiltosa a baciare un giovane così bello; e io, per due castagne, mi lasciai baciare sulle due guance a pizzicotti da un pecoraio!» Lo sposo, che udì questa bella prova, s'irritò e gonfiò come rospo e il mangiare gli restò in gola: tuttavia fece della trippa cuore, e inghiottì la pillola col pensiero di far poi i conti e saldare la partita.

Levate le tavole, mandò via la mamma e le sorelle, ed esso, la sposa e Parmetella restarono insieme per andarsi a coricare; e, mentre egli si faceva scalzare da Parmetella, disse alla sposa: «Moglie mia, hai visto come questa ritrosa mi ha negato un bacio?» «Ha avuto torto» replicò la sposa, «a tirarsi indietro, essendo tu così giovane, quando io per due castagne mi feci baciare da un guardapecore.» Non poté più oltre frenarsi Tuoni-e-lampi e con lampi di sdegno e tuoni di fatto, montatagli la mostarda al naso, mise mano a un coltello e scannò la sposa, e, scavata una fossa nella cantina, la sotterrò; e poi, abbracciata Parmetella, le disse: «Tu sei la gioia mia, tu sei il fiore delle donne, lo specchio delle persone onorate; e perciò volgimi gli occhi, dammi la mano, appressami la bocca, stringiti al mio cuore, ché voglio esser tuo finché il mondo sarà mondo.» Così si coricarono e stettero in godimento, fintanto che il Sole levò i cavalli di fuoco nella stalla d'acqua e li cacciò a pascere pei campi seminati dall'Aurora; quando, venuta l'orca con le uova fresche per ristorare gli sposi e dire: «Beato chi si sposa e prende suocera!», trovò Parmetella abbracciata col figlio, e apprese come la cosa era andata. Corse allora difilato alla sorella per concertare il modo di levarsi quel pruno dagli occhi suoi senza che il figlio vi s'opponesse; ma trovò che quella, pel dolore della figlia arrostita nel forno, s'era infornata anch'essa, talché il puzzo di bruciaticcio ammorbava tutto il vicinato. La sua disperazione fu tale che da orca diventò montone, e cozzò nei muri tante e tante volte che alfine vi schizzò le cervella. E Tuoni-e-lampi, messa pace e amicizia tra le cognate e Parmetella, se ne stette contento e lieto con la moglie, riconoscendo vero il motto che

chi la dura la vince.

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Note dal testo:


[1]pascolare gli animali.

[2]Termine usato, anticamente, per indicare, al femminile, "colei che ospita".

[3]Antica unità di misura di capacità, usata in alcune regioni d'Italia prima dell'adozione del sistema metrico decimale, di valore diverso a seconda dei luoghi.

[4]In agraria, levare la terra intorno al pedale o alle radici di una pianta.

[5]In petrografia, termine generico usato per indicare rocce eruttive filoniane (corrispondenti ai graniti o alle sieniti) o effusive paleovulcaniche (corrispondenti alle lipariti e alle trachiti, neovulcaniche), a struttura distintamente porfirica, durissime, assai resistenti all'abrasione e alla compressione, lucidabili, per cui sono usate, in forma di cubetti grezzi, per pavimentazioni stradali e, sotto forma di lastre lucidate, per pavimenti, scale e come materiale ornamentale.

[6]pollastra, pollastrella.

[7]Nome originario dell'acciarino.

[8]Antica forma del plur. di fuso.

[9]Ingrossamento o bottoncino ai due capi del fuso per fermare il filo.

[10]"Bon voglio, perché poi tu mi mageresti".

[11]"Spiedo", inteso come arma da punta, oppure,asta di ferro per arrostire i cibi.

[12]Una specie di scopa.

[13]Vaso da notte.

[14]Qui è da intendersi: "commissionata".

[15]materiale per fodere.

[16]fune, cappio (per animali, specialmente per cavalli).

[17]sott'inteso, gli strumenti. Così, Tuoni-e-lampi avverte Parmetella di stare in guardia.

[18]forma antica per cornamusa.

[19]zampogna.

[20]strumento musicale a fiato.

[21]detto di persona che ha il naso schiacciato

[22]parola caduta in disuso, usata, probabilmente, per indicare una persona dal volto sporgente.

[23]detto di persona che ha gli occhi cisposi, ossia, pieni di sostanze secrete dalla congiuntiva che si raggruma sul bordo e agli angoli delle palpebre, specialmente durante il sonno o negli stati patologici dell'occhio.

[24]rigida come un palo.

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(Documento creato il 01/12/2013. Ultimo aggiornamento: 08/11/2016.)