H.C.Andersen: Le soprascarpe della felicità

libro animato

La trasformazione del copista


Il guardiano notturno, che noi certamente non abbiamo dimenticato, si ricordò improvvisamente delle soprascarpe che aveva trovato e portato con sé in ospedale; andò a prenderle, ma poiché né il tenente né altri abitanti della strada le riconobbero, furono consegnate alla polizia. "Sembrano proprio le mie soprascarpe!" disse uno dei copisti, che stava osservando gli oggetti smarriti, e le mise accanto alle sue. "Neppure l'occhio di un calzolaio sarebbe in grado di distinguerle!" "Signor copista!" disse un servitore, che entrò con alcune carte. Il copista si volse, parlò con lui, e quando tutto fu finito si rimise a guardare le soprascarpe; non sapeva più se erano quelle di destra o quelle di sinistra quelle che appartenevano a lui. ' Devono essere quelle bagnate! ' pensò, ma sbagliava, perché erano invece quella della felicità; naturalmente anche la polizia può sbagliare. Mise nella tasca e sotto il braccio alcune carte che dovevano essere rilette e riscritte a casa; ma era domenica mattina e il tempo era bello, quindi pensò che gli avrebbe fatto bene un giro a Frederiksberg. Così andò laggiù. Non c'era persona più tranquilla e diligente di questo giovane, quindi fece proprio bene a farsi una passeggiata dopo essere stato seduto tanto a lungo. All'inizio camminò senza pensare a niente, così le soprascarpe non ebbero la possibilità di mostrare la loro forza magica. Nel viale incontrò un conoscente, un giovane poeta, che gli raccontò che il giorno dopo avrebbe fatto un viaggio. "Ah, deve partire di nuovo!" disse il copista. "Lei è proprio fortunato, è un uomo libero. Può andarsene dove vuole, noi invece abbiamo una catena al piede." "Sì, ma è legata all'albero del pane!" rispose il poeta. "Lei non ha certo bisogno di preoccuparsi per il domani, e quando sarà vecchio avrà la pensione." "Ma lei sta meglio!" ribatté il copista. "Deve essere proprio un piacere starsene lì a poetare! Tutto il mondo le fa i complimenti e lei è padrone di se stesso. Eh, sì, dovrebbe provare a starsene al tribunale con tutte quelle noiose scartoffie!" Il poeta scosse la testa, anche il copista scosse la testa, ognuno si tenne la propria opinione e si divisero. "Eh, i poeti, sono proprio gente particolare!" esclamò il copista "mi piacerebbe provare a penetrare in una tale natura, diventare anch'io un poeta, e sono certo che non mi metterei a scrivere piagnistei come fanno gli altri. Poi oggi è proprio un giorno di primavera adatto a un poeta! L'aria è straordinariamente trasparente le nuvole così belle, e c'è un profumo con tutto quel verde! Da molti anni non ho provato quello che provo in questo momento."

Noi già notiamo che è diventato poeta; la cosa non era certo visibile, perché sarebbe assurdo immaginarsi un poeta diverso dagli altri uomini, tra questi ci sono senz'altro nature molto più poetiche di quella di un grande poeta riconosciuto: la differenza sta soltanto nel fatto che il poeta ha una memoria spirituale migliore, può mantenere l'idea e la sensazione finché questa non si è trasformata chiaramente e con precisione in versi, cosa che gli altri non sanno fare. Ma certamente passare da una natura comune a una dotata è sempre un salto e questo il copista l'aveva appena fatto. "Che delizioso profumo" esclamò "mi ricorda le violette della zia Lone. Già, allora ero ancora un ragazzo. Oh, Signore, per tantissimo tempo non ho mai pensato a quella brava zitella! Abitava proprio dietro alla Borsa, aveva sempre un ramoscello o qualche germoglio verde nell'acqua, non importava quanto fosse rigido l'inverno. Le violette profumavano, mentre io appoggiavo le monetine di rame riscaldate sul vetro gelato e facevo degli spiragli per guardare fuori. Era una meravigliosa prospettiva. Fuori nel canale le navi erano bloccate dal ghiaccio, abbandonate da tutti gli uomini, solo una cornacchia gracchiante costituiva l'equipaggio; ma quando poi giungeva la primavera, allora c'era da fare. Cantando e con grida di Urrà il ghiaccio veniva rotto. Le navi venivano incatramate e attrezzate di nuovo, in modo che potessero dirigersi verso terre straniere; io sono rimasto qui, e sempre dovrò restarci, sempre nell'ufficio della polizia a vedere che gli altri ritirino il passaporto per viaggiare all'estero, questo è il mio destino! Oh!" sospirò profondamente, ma altrettanto improvvisamente si fermò. "Oh Dio, che cosa mi succede? Non avevo mai pensato o provato nulla di simile: dev'essere l'aria di primavera. È un misto di paura e di piacere." Trasse dalla tasca le sue carte. "Queste mi daranno ben altro a cui pensare!" disse, e lasciò scorrere gli occhi sulla prima pagina. "La Signora Sigbrith, tragedia originale in cinque atti" lesse "che cos'è? Ma l'ho scritto io stesso. Ho forse scritto una tragedia? Intrigo sui bastioni o Il giorno della preghiera, Vaudeville. Da dove ho preso questa roba? Qualcuno deve averla messa nella mia tasca; qui c'è una lettera." Sì, era del direttore del teatro, quei pezzi erano stati respinti e la lettera non era affatto gentile. ' Uhm! ' pensò il copista, sedendosi su una panca; i suoi pensieri erano così vivi e il suo cuore così commosso; involontariamente afferrò uno dei fiori che stavano più vicino, era una piccola margherita, molto semplice; quello che un botanico potrebbe dirne solo con molte lezioni, la margherita lo rivelò in un attimo, raccontò il mito della sua nascita, la forza della luce del sole che aveva dischiuso i suoi petali sottili facendoli profumare, poi lui pensò alla lotta della vita, che allo stesso modo risveglia i sentimenti nel nostro petto. L'aria e la luce erano le amanti del fiore, ma la luce era la sua preferita, lei si piegava sempre verso la luce e, quando questa scompariva, raccoglieva i petali e si addormentava nell'abbraccio dell'aria. "È la luce che mi rende bella!" disse il fiore. "Ma l'aria ti permette di respirare!" le sussurrò la voce del poeta. Lì vicino c'era un ragazzo che batteva con un bastone in una pozzanghera piena di fango; le gocce d'acqua schizzavano tra i rami verdi, il copista pensò a milioni di animali invisibili che con le gocce venivano gettati in alto: per loro doveva essere come per noi venir gettati in alto o sopra le nubi. Il copista, riflettendo a queste cose e a tutto quel cambiamento avvenuto in lui, sorrise. "Sto sognando! Comunque è straordinario. Sognare in modo così veritiero, e sapere che è solo un sogno. Se solo domani potessi ricordarmi tutto quando mi sveglierò adesso mi sembra di essere proprio straordinario! Ho una visione chiara di tutte le cose, mi sento così lucido, ma so che quando domani ricorderò qualcosa, allora mi sembreranno tutte sciocchezze, l'ho già sperimentato prima! Accadrà come con tutte quelle cose meravigliose e intelligenti che si ascoltano e si dicono nel sogno e che sembrano l'oro degli elfi; nel momento in cui uno lo scopre questo appare bello e meraviglioso, ma quando lo si vede di giorno restano solo foglie secche e pietre. Ah!" sospirò tristemente guardando gli uccelli che cantavano, e che saltavano divertiti tra un ramo e l'altro. "Loro stanno certo meglio di me! Volare, volare, è una bella arte, felice colui che è nato capace di farlo! Sì, se potessi ottenere qualcosa, vorrei essere una piccola allodola!"

In quello stesso momento le maniche e le falde dell'uniforme si unirono trasformandosi in ali, i vestiti divennero piume e le soprascarpe zampine. Lui notò tutto questo e si mise a ridere tra sé: "Ecco, adesso posso proprio vedere che sto sognando ma un sogno così strano non l'ho mai fatto prima d'ora!". Volò tra i rami verdi e si mise a cantare, ma non c'era poesia nella sua canzone, perché la natura di poeta era sparita; le soprascarpe potevano, come ognuno che fa qualcosa di buono, compiere solo un azione alla volta, lui aveva voluto essere poeta e lo era diventato; ora voleva diventare un uccellino, ma diventandolo aveva perso le qualità precedenti. "È proprio bella! di giorno me ne sto negli uffici della polizia tra le scartoffie più concrete del mondo, di notte posso sognare di volare come un'allodola nel giardino di Frederiksberg; ci potrei quasi scrivere un'intera commedia!" Poi volò giù nell'erba, girò la testa da tutte le parti e batté col becco quei sottili fili d'erba che, paragonati alla sua attuale statura, gli sembravano grandi come le palme del Nord-africa. Ma un attimo dopo fu notte intorno a lui, gli sembrò che un oggetto enorme gli venisse gettato sopra: era un grande berretto che un ragazzo dei quartieri dei marinai aveva gettato su quell'uccello; poi sopraggiunse una mano che afferrò il copista per la schiena e per le ali, e lui strillò. In preda al terrore del primo momento gridò a voce alta: "Monellaccio senza rispetto! sono un copista degli uffici della polizia!" ma tutto questo alle orecchie del ragazzo suonò come un cip cip. Batté l'uccello sul becco e se ne andò. Nel viale incontrò due scolari che appartenevano a una classe sociale elevata, ma che, in quanto a cultura, erano gli ultimi della scuola; questi comprarono l'uccello per otto scellini e così il copista arrivò a Copenaghen da una famiglia che abitava a Gothersgade. "Fortuna che sogno" disse il copista "altrimenti mi sarei arrabbiato! Prima ero poeta, adesso sono un'allodola! Già, è stata la natura del poeta che mi ha fatto diventare uccellino! Ma è una brutta storia, soprattutto quando si cade nelle mani di certi ragazzi. Mi piacerebbe sapere come va a finire!" I ragazzi lo portarono in una grande stanza elegante; una donna grassa e ridente andò loro incontro; ma non fu affatto contenta di vedere che avevano con sé quel semplice uccello di campo, come lei chiamava l'allodola; comunque per quel giorno avrebbe lasciato correre, dovevano metterlo in quella gabbia vuota che c'era vicino alla finestra! "Farà forse contento il pappagallo" continuò ridendo e accennando a un grande pappagallo verde che si dondolava elegantemente sul suo anello in una meravigliosa gabbia di ottone. "Oggi è il compleanno del pappagallo!" disse poi con un tono stupidamente infantile. "Perciò questo piccolo uccello di campo vuole fargli gli auguri." Il pappagallo non rispose affatto, ma continuò a dondolarsi con grande eleganza avanti e indietro; invece un bel canarino, che l'estate prima era stato portato fin lì dalla sua calda patria profumata, cominciò a cantare a voce alta. "Strillone!" esclamò la donna gettando un fazzoletto bianco sulla gabbia. "Cip, cip!" sospirò quello "come nevica!" E con questo sospiro tacque. Il copista, o meglio, come diceva la donna, l'uccello di campo si trovò in una gabbietta vicino a quel canarino, non lontano dal pappagallo. L'unica espressione umana che quel pappagallo conosceva, e che spesso suonava molto comica, era: "No, siamo uomini!". Tutto il resto che diceva era incomprensibile, proprio come il cinguettio del canarino, ma non per il copista che ora era un uccello come loro e che comprendeva i suoi buoni compagni. "Io volavo sotto la palma verde e sotto il mandorlo in fiore!" cantava il canarino "volavo con i miei fratelli e sorelle sopra i magnifici fiori e sul lago trasparente come il vetro, dove le piante si riflettevano, piegandosi verso l'acqua; ho visto anche molti bei pappagalli che raccontavano storie divertentissime, lunghe e numerose." "Erano uccelli selvatici" rispose il pappagallo "non avevano istruzione. No, siamo uomini! Perché non ridi! Se la signora e tutti gli stranieri ne ridono, allora devi farlo anche tu. È un grande difetto non saper godere delle cose divertenti. No, siamo uomini!" "Oh, ti ricordi quelle belle ragazze che ballavano sotto la tenda montata vicino agli alberi in fiore? Ti ricordi quei dolci frutti e quel succo ristoratore delle erbe selvatiche?" "Oh, sì!" rispose il pappagallo "ma io qui sto molto meglio! Mi danno da mangiare bene e vengo trattato con rispetto. So di essere intelligente e non pretendo di più. Siamo uomini! Tu sei un'anima di poeta come dicono, io invece ho solide conoscenze e umorismo. Tu hai del genio, ma non hai il buon senso. Raggiungi naturalmente note molto alte, e per questo ti coprono. Ma a me non lo fanno, perché sono costato un po' di più. Faccio impressione col mio becco e posso fare vits, vits! No, siamo uomini!" "Oh, la mia calda patria in fiore!" cantò il canarino. "Voglio cantare dei tuoi alberi verde scuro, delle tue tranquille baie sul mare dove i rami baciano la trasparente superficie dell'acqua, voglio cantare del giubilo di tutti i miei splendenti fratelli e sorelle, là dove cresce la pianta del deserto, il cactus!" "Lascia stare quei toni piagnucolanti!" gli disse il pappagallo "di' qualcosa di cui si possa ridere! La risata è il segno del più alto stato spirituale. Guarda se un cane o un cavallo sanno ridere: no, sanno piangere, ma non ridere, questo è dato solo agli uomini. Ah, ah!" rise il pappagallo, ripetendo il suo motto: "Siamo uomini, siamo uomini!". "Tu piccolo uccello danese grigio" disse il canarino "anche tu sei stato catturato! È certamente freddo nei tuoi boschi, ma anche lì c'è la libertà, vola via! Hanno dimenticato di chiudere la porta, e la finestra in fondo è aperta. Vola, vola!" E così fece il copista, in un attimo fu fuori dalla gabbia, ma nello stesso momento la porta socchiusa che dava nella stanza accanto scricchiolò e entrò il gatto di casa, agile, con splendenti occhi verdi, e si mise a cacciarlo. Il canarino si agitava nella gabbia, il pappagallo batté le ali e gridò: "Siamo uomini!". Il copista si spaventò a morte e volò via attraverso la finestra sulle case e sulle strade; alla fine dovette riposarsi un pò. La casa lì vicino aveva qualcosa di familiare; una finestra era aperta, lui volò dentro, era casa sua. Così si mise sul tavolo. "Siamo uomini!" disse senza neppure pensare a quel che diceva, copiando il pappagallo, e nello stesso momento ridivenne copista, ma era seduto sul tavolo. "Oh Signore!" disse "come ho fatto a salire quassù e poi a addormentarmi? È stato un sogno agitato. Tutto quanto non è che una gran sciocchezza!"

Ciò che di meglio le soprascarpe portarono


Il giorno dopo, di mattina presto, quando il copista ancora dormiva, bussarono alla sua porta; era il suo vicino, uno studente di teologia, che entrò. "Prestami le soprascarpe" disse "è tutto bagnato in giardino ma il sole splende e voglio andar giù a farmi una fumatina." Si mise le soprascarpe e in un attimo fu giù in giardino dove c'erano un prugno e un pero. Anche se era piccolo, il giardino era un gran tesoro dato che si trovava a Copenaghen. Lo studente camminò avanti e indietro, erano solo le sei e dalla strada risuonò il corno di un postiglione. "Oh, viaggiare, viaggiare!" esclamò allora "è la cosa più bella del mondo. È la massima aspirazione dei miei desideri. Sicuramente quella inquietudine che sento si placherebbe. Ma dovrebbe essere lontano! Vorrei vedere la splendida Svizzera, viaggiare in Italia e..." Per fortuna le soprascarpe agivano immediatamente, altrimenti sarebbe arrivato troppo lontano, sia per se stesso che per noi. Stava viaggiando. Era nel cuore della Svizzera con altre otto persone, pigiato all'interno di una diligenza: aveva mal di testa e sentiva tutta la stanchezza sulla schiena il sangue gli era sceso fino alle gambe, che si erano gonfiate e premevano negli stivali; era in uno stato di dormiveglia. Nella tasca destra aveva una lettera di credito, in quella sinistra il passaporto e sul petto in un piccolo sacchettino di pelle, alcuni luigi d'oro. Ogni volta che sognava gli pareva che uno di quei tesori fosse perduto; per questo si svegliava agitato e il primo movimento che faceva con la mano era un triangolo da destra a sinistra fino al petto, per sentire se aveva ancora tutto. Ombrelli, bastoni, cappelli dondolavano sopra di loro e impedivano la vista, che era veramente straordinaria; lui provava a guardare mentre il suo cuore cantava quello che un poeta che io conosco bene ha cantato in Svizzera ma che fino a ora non è mai stato pubblicato:

Qui è bello proprio come il cuore desidera. Io vedo il Monte Bianco, così maestoso. Se solo avessi soldi a sufficienza, resterei qui!

Tutta la natura intorno era grandiosa, severa e scura. I boschi di abete sembravano erica nata sulle alte rocce, la cui cima si nascondeva tra le nuvole. Poi incominciò a nevicare e soffiò un vento gelido. "Oh!" sospirò lui "se solo fossi già dall'altra parte delle Alpi, sarebbe estate e così avrei anche ritirato i soldi della lettera di credito; la paura che ho per questi non mi fa godere la Svizzera. Ah, se solo fossi dall'altra parte!" e così si trovò dall'altra parte, nel cuore dell'Italia, tra Firenze e Roma. Il Lago Trasimeno, illuminato dalla luce della sera, sembrava di oro fiammante; tra quelle scure montagne dove Annibale aveva vinto Flaminio, i tralci di vite s'intrecciavano pacificamente; dei bambini mezzi nudi e graziosissimi sorvegliavano un gruppo di maiali neri come il carbone sotto un boschetto di alloro profumato. Poteva essere un quadretto, e tutti nel vederlo avrebbero esclamato: "Bella Italia!" ma non lo disse né il teologo né alcuno dei compagni di viaggio che si trovavano nella carrozza. A migliaia volavano intorno a loro mosche velenose e zanzare, che invano cacciavano con un ramo di mirto: gli insetti pungevano ugualmente. Nessuno di quanti era in carrozza poté evitare che il viso gli si gonfiasse e sanguinasse per le morsicature. I poveri cavalli sembravano delle carogne: gli insetti si erano posati su di loro in grandi sciami, e solo per un momento si sollevavano quando il vetturino scendeva per raschiare la schiena di quei poveri animali. Il sole tramontò e un breve ma gelido brivido di freddo passò per tutta la campagna. Non era affatto piacevole, ma tutt'intorno le montagne e le nuvole assunsero i colori più belli, trasparenti e luminosi... ma andate voi stessi a vederli, è molto meglio che leggerne la descrizione! Era meraviglioso! E lo trovarono così anche i viaggiatori, ma lo stomaco era vuoto, il corpo stanco, e tutti desideravano di cuore trovare un alloggio per la notte. Ma come sarebbe stato? In realtà pensavano molto di più a trovare un alloggio che non a ammirare la splendida natura.

La strada passava in mezzo a un bosco di olivi, era come viaggiare in patria tra salici nodosi e là si trovava una locanda solitaria. Proprio davanti stava una mezza dozzina di mendicanti; quello che aveva l'aspetto migliore sembrava il figlio primogenito della fame, quello che aveva raggiunto la maturità. Gli altri o erano ciechi o avevano le gambe rattrappite e strisciavano sulle mani, o avevano braccia ciondolanti e mani senza dita. Erano proprio la miseria in carne e ossa. "Eccellenza, Miserabili!" sospirarono tendendo gli arti malati. La padrona della locanda andò verso gli ospiti a piedi nudi, coi capelli arruffati e vestita di un camicione sporco. Le porte erano tenute chiuse con le corde, il pavimento nelle stanze era fatto di mattoni rotti, volavano pipistrelli proprio sotto il soffitto, e c'era una puzza! "È meglio apparecchiare nella stalla!" disse uno dei viaggiatori "laggiù almeno si sa quello che si respira!" Le finestre vennero aperte affinché entrasse un po' d'aria fresca, ma, molto più veloci, entrarono le braccia rattrappite e l'eterno lamento: "Miserabili! Eccellenza!". Sulle pareti c'erano molte iscrizioni, metà di queste contro la bella Italia! Il pranzo venne servito: una zuppa fatta di acqua e insaporita con pepe e olio rancido, lo stesso tipo di olio usato per l'insalata; uova marce e creste di gallo arrostite erano il piatto principale, persino il vino aveva un sapore tremendo, era un vero e proprio miscuglio. Per la notte le valigie vennero ammucchiate davanti alla porta: uno dei viaggiatori doveva fare da guardia mentre gli altri dormivano; e fare da guardia toccò al teologo. Oh, che odore c'era li dentro! Il caldo soffocava, le zanzare ronzavano e pungevano, i miserabili che stavano là fuori si lamentavano nel sonno. "Già, viaggiare è bello" sospirò lo studente "purché non si abbia il corpo! Se solo questo si potesse riposare e lo spirito invece potesse volare, volare! Ovunque io vada c'è una miseria che tocca il cuore, vorrei avere qualcosa di meglio di quello che può concedere l'istante, sì, qualcosa di meglio, il meglio, ma dov'è? che cos'è? In fondo io so bene che cosa desidero, voglio arrivare a una meta felice, la più felice di tutte!" Mentre pronunciava queste parole si ritrovò a casa; le lunghe tendine bianche erano state abbassate davanti alla finestra e in mezzo alla stanza si trovava una bara nera in cui giaceva lui stesso immerso nel sonno tranquillo della morte, il suo desiderio era stato esaudito, il corpo riposava e lo spirito viaggiava. "Non considerare nessuno felice, prima che sia nella sua tomba" ha detto Solone, e qui se ne ha la conferma. Ogni cadavere è una sfinge dell'immortalità: ma neppure quella sfinge che si trovava nella bara nera corrispondeva a quel che lui da vivo aveva scritto due giorni prima:

Morte vigorosa, il tuo silenzio fa rabbrividire,
la tua traccia è solo data dalle tombe del cimitero.
Si infrangerà la speranza della Scala di Giacobbe?
Mi sveglierò, come erba, nel giardino della morte?
Spesso il mondo non vede la nostra maggiore sofferenza!
A te che eri solo, fino all'ultimo istante,
non peserà troppo sul cuore
la terra che getteranno sulla tua bara!

Due figure si muovevano nella stanza, noi le conosciamo entrambe: erano la fata del dolore e la rappresentante della felicità, si piegarono sul morto. "Vedi" disse il dolore "che felicità hanno portato agli uomini le tue soprascarpe?" "Per lo meno hanno portato a quello che dorme qui la pace eterna!" rispose la gioia. "Oh no!" disse il dolore "se n'è andato per volontà sua, non perché è stato chiamato! Le forze spirituali che aveva qui sulla terra non sono state sufficienti per ottenere lassù i tesori che gli erano stati destinati." E gli tolse dai piedi le soprascarpe; allora il sonno della morte finì, e il resuscitato si alzò. Il dolore sparì e con il dolore le soprascarpe; senza dubbio le considerava una sua proprietà.